Bestie di scena o bestie di gioia?

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Vista la penultima replica di Bestie di scena al Piccolo, dunque ampiamente superata la necessità di descrivere o di dar conto dello scandalo vero o presunto generato dalla nudità degli attori, o delle diatribe sul valore artistico dello spettacolo, ci troviamo nella curiosa situazione in cui il nostro ritardo nel rendicontare il debutto milanese coincide con le anticipazioni luganesi, che paiono anch’esse annunciare un’analoga aura di scandalo intorno al lavoro della Dante e compagni in scena al LAC di Lugano.

Sembra annullato quel beneficio che proviene dalla società della Rete quando mette in relazione innumerevoli punti di vista intorno a un dato evento, consentendo a chiunque di farsi un’idea abbastanza precisa della complessità della questione, mentre si ripetono le medesime prese di posizione pregiudiziali registrate nei giorni delle recite milanesi.

Infatti, un giornale on-line della cittadina  svizzera riporta le dichiarazioni di un esponente cittadino della Lega  riguardo a Bestie di scena: “Certo che se è così che si pensa di lanciare il LAC sulla scena internazionale affinché possa generare gli indotti economici che i luganesi – che l’hanno pagato per intero – giustamente pretendono, magari si sta sbagliando qualcosa”.

Ma poco prima l’esponente leghista aveva puntualizzato: “Si può dire che ‘sta cosa ha tutta l’aria di essere una boiata pazzesca o è lesa maestà kulturale? (Questa è davvero kultura con la k…). Aridatece la corrazzata Potëmkin!”.

 

 

Molti commenti in rete a questo e ad altri articoli erano entrati nella questione argomentando ampiamente a sfavore dello spettacolo, e in alcuni casi il latore del post aveva poi ammesso non solo che non aveva visto il lavoro della compagnia siciliana, ma che, per principio, a vederlo non ci sarebbe proprio andato.

Si è parlato di spettacolo senza drammaturgia, di manierismo, di sperimentazione stanca, di voglia fine a se stessa di stupire il pubblico, di mancanza di rispetto per gli attori, si sono evocati sprechi di denaro pubblico.

Ma a parte l’accenno a quest’ultimo tema da parte dell’esponente leghista luganese, che vale quel che vale, nessuno ha poi pensato in effetti alle implicazioni economiche di uno spettacolo come questo. Infatti non di uno spettacolo “di nudo” si tratta (così come si poteva essere autorizzati a pensare dal tenore di certi commenti), quanto piuttosto di uno spettacolo “nudo”, per così dire: scenografia assente, musiche assenti (solo un pezzo: Only you), light design semplicissimo, oggetti d’uso quotidiano (una tanica di plastica, delle noccioline, dei petardi, delle scope, un telo ecc), testo assente, costumi edenici. Potrà perciò aver gravato più di tanto sul bilancio del Piccolo? Non ho dati in proposito, ma credo proprio di no. Il che, trattandosi di una produzione del maggiore teatro nazionale italiano non è un fatto di secondaria importanza.

La questione della nudità poi è irrisoria: alla penultima replica, e torniamo a Milano, si sa che il pubblico sa, e che si aspetta quel momento come per verificare coi propri occhi di che veramente si tratti. E di che si tratta poi, alla fine?

Accade che, nella macchina ritmica che i corpi sincronizzati degli attori costruiscono col trascorrere da un riscaldamento a un training assolti secondo una sfumata modalità terzoteatrale, per giungere a un battente passo di gruppo quasi di tarantella nel quale la precisione del ritmo conduce lo spettatore in uno spazio interiore di ipnotica risonanza, si innesta di colpo una travolgenete discontinuità. Ed è quando gli attori, uno alla volta, si strappano dalla matrice ritmica creatrice di mondo – di un mondo che non sarà più così votato all’unanimità come quel coreografato pulsare ritmico dell’inizio pare suggerire – per giungere alla resa individuale, alla fatica portata in proscenio estremo da ciascun attore, che si traduce nel liberarsi prima di magliette e pantaloni, usati per detergersi il sudore, e infine di scarpe, mutande e reggiseni a concludere una sequenza che eccede la sua stessa prima funzione, e assume la forma di una radicale e coerente estremizzazione del gesto iniziale.

 

 

Questo per dire che la nudità, vista dall’interno di questo meccanismo ritmico-simbolico, non assume affatto un significato disdicevole o pruriginoso. Certo che abbiamo pienamente percepito l’atto, portato fin sotto la prima fila, proposto con forza dagli attori, ma una volta esaurito il suo potenziale eventualmente provocatorio, esso viene poi del tutto cancellato dalla pregnanza dell’azione che si sviluppa in scena da quel momento in poi.

La quale è un susseguirsi di accidenti che capitano fra i piedi di questa comunità spogliata di tutto, che dopo essersi rinserrata in alcuni quadri di grande effetto plastico si scompone e frammenta perdendosi ogni volta dietro l’ultimo stimolo lanciato in scena da un personaggio che rimane nascosto.

Il succedersi degli stimoli, degli accidenti, è la trovata che consente al gruppo di reagire e di modellare le proprie dinamiche interne, per di più consente allo spettacolo di costruirsi lentamente e rigorosamente come un concerto di atletica scenica, muto, nel quale ogni attore dà prova di grande virtuosismo e dedizione.

Colpisce vedere attori che si danno così completamente, e non è la loro una dedizione di cui il regista tiranno senza scrupoli approfitti sadicamente, come qualcuno neppure troppo velatamente ha suggerito; la vittoria schiacciante di una regia ammazzattore, al contrario. Nessuna sudditanza appare in questo gioco degli attori. E’ vero che la regista avrà guidato o manipolato il lavoro dei performer, ma lo stesso gli attori avranno fatto con lo sguardo della regista: dove sta la prevaricazione?

Perchè alla fine quello che accade è quanto in teatro dovrebbe sempre accadere: cioè trionfo del gioco teatrale – e della gioia della scena – con il suo bello strato di ambiguità a rendere più o meno grossolano, più o meno sottile il gioco dell’interpretazione, ma gioco, dove i significati rimbalzano da un passaggio all’altro e svaniscono nel momento stesso in cui appaiono; gioco delle assonanze e dissonanze, contrazione e dilatazione, continuità e discontinuità, esplosione e ritenzione.

La nudità degli attori in fondo è figura di questo grado zero della drammaturgia, che è scrittura scenica primigenia originata dal lavoro scenico della compagnia. Siamo sempre lì: il paradosso dell’attore è che nella costrizione si libera; nella struttura crea. Forse il punto è che il procedere scenico, con il suo prevedere un nascosto demiurgo che stimola alla reazione gli attori, mette in chiaro una dinamica nascosta? Il problema sta nello svelare senza remissione questa dinamica?

Nel far vedere ciò che deve rimanere nascosto? Nel mettere in scena il training, nel tematizzare la presenza nascosta del regista? Allora ben venga un teatro che toglie la pelle al corpo dello spettacolo, e ne mostra, come quelle figure anatomiche di uomini senza epidermide, l’armonioso e quasi repellente intrico di tutte le parti in relazione vitale l’una con l’altra.

 

FRANCO ACQUAVIVA

 

Bestie di scenaideato e diretto da Emma Dante – con Elena Borgogni, Sandro Maria Campagna, Viola Carinci, Italia Carroccio, Davide Celona, Sabino Civilleri, Alessandra Fazzino, Roberto Galbo, Carmine Maringola, Ivano Picciallo, Leonarda Saffi, Daniele Savarino, Stephanie Taillandier, Emilia Verginelli, Daniela Macaluso, Gabriele Gugliata – visto il 17 marzo 2017 al Piccolo Teatro Strehler di Milano