“Bestie di scena”: una coreografia di nude follie disperate

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Il sipario del Teatro Strehler è già aperto e sul palcoscenico, in cerchio, 14 attori in tuta fanno training: così comincia Bestie di scena, il nuovo spettacolo di Emma Dante, coprodotto dal Piccolo Teatro di Milano con la Compagnia Sud Costa Occidentale, il Teatro Biondo di Palermo e il Festival d’Avignon, che ha debuttato lo scorso 28 febbraio e resta in scena fino al prossimo 18 marzo.

Il ritmo, la difficoltà e la fatica aumentano gradualmente, il respiro affannato dei performer si sente a ogni movimento, quasi a scandire il tempo; contano “un, due, tre quattro, cinque, sei, sette, otto” e via di nuovo. Si uniscono pian piano in un gruppo con gli occhi sempre fissi sullo spettatore, dal gruppo gradualmente si separano uno alla volta, per arrivare sul proscenio e ormai accaldati e sudati si spogliano integralmente.

Ci troviamo davanti una fila di corpi nudi privi di qualsiasi forza erotica, timidi si coprono i genitali, si uniscono in un gruppo e poi si ridividono: immagini dotate di forte plasticità e colore, il roseo dei corpi, le onde delle forme, le ossa spigolose, i muscoli, la pelle morbida.

Scoperti totalmente gli attori, che prima sembrano intimoriti, timidi e spaesati, perdono poco a poco la vergogna e cominciano a comportarsi con naturalezza, fino ad assumere atteggiamenti animaleschi.

Dalle quinte lanciano oggetti, palle, stracci, noccioline, con cui i performer (tutti bravissimi) si relazionano ingenuamente con la curiosità di chi ha bisogno di scoprire e conoscere, di chi non ha limiti e cede ai propri istinti.

Tutto accade nel silenzio totale, quasi inquietante per lo spettatore seduto in poltrona che sente il suo stesso respiro: in Bestie di scena non c’è parola, scompaiono i monologhi, le urla, il vocio continuo, quella poetica confusione dei suoni siciliani tipici degli spettacoli della regista palermitana. Solo movimenti e danze in ripetizione e accumulazione, figure circolari, linee, mucchi di corpi che si attraggono e si respingono per esplodere poi nel caos.

Come in un’ipotetica gabbia gli uomini e le donne ricevono stimoli e ordini e agiscono in base alla loro memoria, al loro desiderio, alle loro innate fobie, come se avessero precedentemente dimenticato il codice del buon costume. Così al sentire di una flebile musica da carillon una donna inizia a danzare come fosse telecomandata, al comparire di una spada un uomo comincia a colpire e rincorrere i suoi compagni, un’immagine che ricorda i Pupi, figure spesso presenti nel teatro della Dante, e ancora al lancio delle palle iniziano a giocare come in un campo da basket. Ognuno sembra trascinato totalmente dalla propria nevrosi, dando vita a gesti compulsivi, movimenti verso diverse direzioni, danze, scontri, liti, schiaffi, mettendo in scena così una coreografia di nude follie disperate, passioni, violenze e sofferenze.

Ma allo stesso tempo questi esseri sono vittime di chi dall’esterno gli lancia impulsi e scatena i desideri, di chi li costringe poi a lavorare per raccogliere i rifiuti che loro stessi per necessità hanno creato. È così che dopo essere stati sovrastati da una pioggia di noccioline, raccolte da terra e mangiate come fossero realmente scimmie, cibo poi sputato per gioco, scendono dal soffitto le scope per pulire il pavimento, ripulire ciò che loro stessi hanno sporcato perché provocati.

Immagini crude, che lasciano allo spettatore l’inquietudine dell’incertezza sulla reazione da avere (ridere, disgustarsi o piangere), ma immagini tuttavia finte, lontane da qualsiasi dichiarazione di principi registici e di teorie teatrali. Finzione pura, rappresentazione e non realtà, una riproduzione che senz’altro al suo interno può contenere qualcosa di avverabile o già esistente, proiezione probabilmente di paure, riflessione, fantasmi conosciuti o ancora da scoprire, che possono celarsi nella mente dell’artista, dell’interprete o di colui che attentamente osserva, lo spettatore.

L’altra forte caratteristica del teatro di Emma Dante che viene a mancare è la musica. Unica eccezione Only you, le cui note si fanno spazio tra i suoni della pelle, dei passi, dei soffi e cresce, trascinando con sé la danza di due innamorati, un uomo e una donna che si abbracciano e sembrano improvvisamente tornati umani.

Compaiono tuttavia elementi fondanti del suo teatro: l’acqua, che a Palermo manca sempre, che riappare in un container come in mPalermu, la bambola, la danza classica e il corpo nudo, che, a sentire le recenti polemiche, pare ancora suscitare scandalo, ma che non è certo una novità nel teatro della regista.

La Dante è riuscita a creare uno spettacolo che nonostante la semplicità e la povertà di oggetti (la scenografia è inesistente, le luci sono semplici e la scena è statica) mantiene la poetica del suo linguaggio senza risultare però scontato o già visto.

Sul finale tornano sul proscenio i performer, ora diversi, senza timori, sfacciati, e i loro vestiti vengono rigettati al centro del palco, alle loro spalle: si stringe un circuito visivo, una conclusione che sembra tornare da dove è partita, un percorso che lascia porre domande, che non ha la presunzione di fornire delle risposte, ma che, con la sola vitalità del movimento, ci mette di fronte a una grande paura, quella di essere colti allo scoperto, nel nostro intimo, nella nostra bestialità.

SILVIA MERGIOTTI