WS Tempest. Sul tragico ottimismo del Lemming

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Teatro del Lemming, WS Tempest - foto di Dario Rigoni

 

Teatro del Lemming, WS Tempest – foto di Dario Rigoni

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«Per raggiungere da ogni lato la sensibilità dello spettatore, preconizziamo uno spettacolo mobile  che anziché fare della scena e della sala due mondi chiusi, diffonda i suoi bagliori visivi e sonori su tutta la massa del pubblico»: la pagina dedicata allo spazio scenico sul sito web del Teatro del Lemming porta in esergo alcune celebri righe da Il teatro della crudeltà di Antonin Artaud, che sintetizzano un modo di intendere il rapporto con l’opera in senso propriamente estetico (termine da  intendersi come opposto di anestetico, non di inestetico) che il gruppo guidato da Massimo Munaro pratica da trent’anni, inscrivendosi in una traiettoria rivitalizzante e scompaginante che origina almeno un secolo fa.

WS Tempest, terza parte di una Trilogia detta dell’acqua, si pone come proposizione pienamente riferibile a tale milieu avanguardistico e, contemporaneamente e paradossalmente, del tutto a-storica: «Solo in quanto costruttori del futuro, solo in quanto conoscitori del presente lo capirete» paiono testimoniare in scena i dediti Chiara Elisa Rossini, Diana Ferrantini, Alessio Papa, Boris Ventura, Marina Carluccio, Katia Raguso e Alessandro Sanmartin con il Nietzsche de Sull’utilità e il danno della storia per la vita, seconda delle quattro Considerazioni inattuali.

Questo tragico ottimismo pare il tratto più evidente del nuovo frammento della ricerca politico-umanistica del Teatro del Lemming, caratterizzato da una lungimirante pars costruens che si incarna tanto nell’intento esortativo, brechtianamente didattico quanto nella modalità fortemente espressiva, finanche tragica, aggettivo che si vuole rimandi sia a una dismisura di segni (leggi: un irrompere di vita dei sensi) sia a quella origine del teatro occidentale, ventisei secoli or sono, nella quale il punctum non era tanto l’opera d’arte quanto il suo effetto: l’opera dell’arte.

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Teatro del Lemming, WS Tempest – foto di Marina Carluccio

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Munaro pare non smarrire, in un’epoca di soverchianti nichilismi e negazioni totalizzanti, una primigenia fiducia verso le possibilità e i linguaggi del medium teatrale che, con precisione certosina, da trent’anni pratica con i suoi compagni, donne e uomini che sulla scena compiono una iper-esposizione di sé e del sé, intrecciando due modi teoricamente opposti di abitare la scena, come ha efficacemente sintetizzato Patrice Pavis nel suo Dizionario del teatro: «Il performer è colui che parla e agisce a suo nome (come artista e persona), rivolgendosi al pubblico in tale veste, mentre l’attore rappresenta il proprio personaggio e finge di non sapere di essere un attore di teatro. Il performer realizza una messa in scena del proprio io, mentre l’attore recita la parte di un altro».

Dopo lo spettacolo a cui abbiamo partecipato, nell’ampio foyer del teatro bolognese Massimo Munaro ha dialogato con la studiosa Silvia Mei, condividendo pensieri sul ruolo ermeneutico dello spettatore, sul teatro inteso come occasione di «restituzione di realtà», sulla centralità dei corpi di attori e spettatori, membri di una «società istantanea, trovata, creata e problematizzata»: un teatro, quello del Lemming, che da tre decenni non cessa, al di là delle mode e di alterne fortune critiche e di circuitazione, di inventare strategie per «prendere in trappola le nostre coscienze».

A Massimo Munaro e ai suoi indomiti compagni vale forse dedicare le ultime righe del già ricordato trattato nietzschiano: «La sua sincerità, il suo carattere buono e verace, dovranno opporsi in qualche momento al fatto che sempre e solo si ripeta, si impari da altri e si imiti; allora comincerà a comprendere che la cultura può essere qualcosa d’altro che decorazione della vita, cioè alla fine sempre e solo contraffazione e velo, dato che ogni decorazione nasconde la cosa decorata. E così gli si rivelerà il concetto greco di cultura – in opposizione a quello romano – il concetto di cultura come di una physis nuova e migliorata, senza interno ed esterno, di cultura come voce unanime fra vita, pensiero, apparire e volere. Allora lui impara dalla sua esperienza che era lui la forza superiore della natura sensibile, attraverso la quale ai Greci è riuscita la vittoria su tutte la altre culture, e che ogni aumento della veridicità deve essere anche un incremento che prepari la vera cultura, anche se questa veridicità potrebbe occasionalmente danneggiare in modo serio il culturame così apprezzato, anche se lei stessa potrebbe contribuire a far cadere una cultura del tutto decorativa».

Dire grazie, almeno.

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MICHELE PASCARELLA

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Visto a Teatri di Vita, Bologna, il 5 marzo 2017 – info: teatrodellemming.it, teatridivita.it

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