Max Gericke, piccolo capolavoro post-drammatico

Angela Malfitano, guidata da Fabrizio Arcuri, ha rimesso in scena il testo di Manfred Karge. Noi c’eravamo. Ne siamo usciti saltellando.

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Max Gericke - foto di Mauro Bastelli

 

Era un manovratore e quindi… manovrava

quel gran bottone in ferro della gru

lassù nella garitta lui sempre se ne stava

spostando le putrelle in su e in giù 

 

Faceva andar la gru, perciò era un gruista

appeso a cento metri su nel ciel

ma di lassù godeva di una gran bella vista

e non scendeva mai neanche a dormir

 

Di cosa stiamo parlando?

Riporto, dal comunicato stampa: «Dopo il debutto nello scorso novembre torna in scena […] Max Gericke, il racconto di una donna che nella Germania degli anni Trenta si finge uomo per poter lavorare e sopravvivere, con Angela Malfitano e la regia di Fabrizio Arcuri […] Arcuri e Malfitano tornano a lavorare insieme per un nuovo progetto su un autore di lingua tedesca vivente, Manfred Karge, affrontandone un testo poco noto, ma probabilmente uno dei suoi capolavori […] Una donna che abbandona la sua identità per imporsi quella di uomo, e sullo sfondo i ricordi, le passioni e le delusioni della vita quotidiana, immersa nella storia che scorre, tra la guerra, la depressione economica, la povertà e le circostanze politiche. Rimasta vedova giovanissima, Ella decide di recitare il ruolo del marito per mantenere il suo posto di lavoro nella ditta di costruzioni Nagel e Figli – ovviamente ambitissimo in un paese afflitto da un elevato tasso di disoccupazione – sperando di ottenere una pensione in futuro. Indossa così la tuta da lavoro, si taglia i capelli, impara velocemente a manovrare la gru, a frequentare le osterie, a bere birra e giocare a ramino».

 

Max Gericke – foto di Mauro Bastelli

 

Perché il gruista soffre di vertigini

da quando si è scassato il gran simpatico

gli si è sconnesso il metabolismo basale

e se discende la terra gli sembra ballar come un mare

 

Era un gruista schiavo delle glandole

e non scendeva neanche la domenica

appollaiato alla gru come un gatto sul melo

cercava svago guardando le donne nel grattacielo

 

Detto questo, è forse bene chiarirlo subito: siamo di fronte un piccolo capolavoro post-drammatico.

 

Piccolo.

Questo minuscolo, prezioso allestimento evoca per surreali frammenti la vicenda sopra accennata attraverso la narrazione in prima persona di un’autobiografia al contempo eccezionale e del tutto ordinaria, intrecciata alla giustapposizione paratattica di azioni propriamente elementari. Nella surreale espressività del personaggio incarnato da Angela Malfitano risuonano un essere soli al mondo e un senso di orfananza che rendono chi guarda l’unico e il primo spettatore. Scevra da ogni deriva sbrigativamente nichilista, la figura sproloquiante e malinconica in pantaloni da uomo, camicia chiara e bretelle allestisce e abita con mal dissimulata goffaggine la scena-casa rilanciando la dialettica fra diverse polarità: maschile e femminile (come non pensare all’androgina Claude Cahun), costruzione e distruzione, ordine e disordine, ilarità e mestizia. Max Gericke passa «dal dramma-della-vita al dramma-nella-vita»: il punctum della proposizione performativa pare non essere la narrazione di grandi azioni organiche, giornate fatali o vicende memorabili, ma una desolata condizione che copre l’intera esistenza. È la vicenda, minuscola e umanissima, di un anonimo protagonista “senza qualità”.

 

Buongiorno signorina, permette? L’accompagno!

a fare un bel giretto sulla gru

nell’aria ce ne andremo come due cicogne

poi, se vuole, ci darem del “tu”

 

Io vengo ma l’avverto che sono un po’ illibata

e quindi, detto fatto, montò su

la giostra gira, gira, al terzo giro la bella s’è schiantata

e aveva appena detto “vado giù”

 

Capolavoro.

Una maestria tripartita caratterizza Max Gericke: quella di Angela Malfitano, attrice solidissima, generosa e piena di colori; quella di Fabrizio Arcuri, autore di un dispositivo stratificato che -intrecciando reale e surreale, fabula e fiaba, qui e altrove, pars costruens e pars destruens– costantemente moltiplica ciò che va affermando; quella di Lorenzo Letizia, i cui proteiformi video punteggiano lo spettacolo di invenzioni e controscene pienamente convincenti, a tratti del tutto sorprendenti.

 

Era un gruista schiavo delle glandole

ma s’intendeva molto di carrucole

lì con la sua garitta inventì in un baleno

giunse di faccia ad un metro (anche men, anche meno!)

dal suo bene

 

Era un gruista schiavo delle glandole

adesso sta nel ciel con la sua sventola

sempre affacciata negli occhi del suo gruista

che bella vista affacciata negli occhi del suo gruista

 

Max Gericke – foto di Mauro Bastelli

 

Post-drammatico.

Con esibita noncuranza, lo spettacolo propone una destrutturazione “dall’interno” della forma-dramma, nell’apparente rispetto dei suoi statuti (plot, personaggio, set, …). Al di là delle intenzioni dell’autore, forse, pare non del tutto improprio definire questo Max Gericke uno spettacolo post-drammatico: incarna con esattezza alcuni dei “dispositivi” evidenziati da Hans-Thies Lehmann allorquando si occupò del superamento della forma-rappresentazione (opacizzazione e de-gerarchizzazione dei segni, frammentazione, simultaneità). Max Gericke smonta, con apparente semplicità, i capisaldi della messa in scena tradizionale: l’unitarietà diegetica, il personaggio, la finzione. Il tutto attraverso una varietà di registri linguistici (lirici e quotidiani, formalizzati e liberi) che evocano una vera e propria peripezia, termine da intendersi nel senso aristotelico del «volgere delle cose fatte nel loro contrario».

 

È una donna schiave delle glandole

e neanche lei discende la domenica

sempre affacciata negli occhi del suo gruista

che bella vista affacciata negli occhi del suo gruista

sempre affacciata negli occhi del suo gruista

che bella vista affacciata negli occhi del suo gruista

 

(lo sapevo io, eh!)

 

MICHELE PASCARELLA

 

PS Le parti in corsivo riportano la canzone Il gruista di Enzo Jannacci, 1991.

 

Visto al Teatro delle Moline di Bologna il 13 aprile 2017