Alto fragile urgente, a Modena la nona edizione di Festival Periferico. Intervista a Federica Rocchi

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Dal 26 al 28 maggio torna a Modena il Festival Periferico, organizzato dal Collettivo Amigdala e quest’anno alla sua nona edizione, che in una relazione di continuità, vede come sede il Villaggio Artigiano di Modena Ovest. #Ovestlab sarà animato per tre giorni consecutivi da spettacoli, performance, installazioni e incontri con artisti di punta del panorama contemporaneo italiano e internazionale. Per l’occasione la redazione di Gagarin ha incontrato la direttrice artistica Federica Rocchi.

Festival Periferico prende vita in luoghi urbani non-teatrali, in aree degradate della città o in spazi pubblici poco valorizzati, da dove è nata questa necessità?

Come spesso accade, l’identità nomade di Periferico è nata da una necessità contingente. Alcuni anni fa, Amigdala si ritrovò a non avere più una sede fisica in cui operare ma con il desiderio di proseguire l’esperienza appena nata del festival. Così iniziammo a ragionare sulla possibilità di attraversare altri luoghi, e di mettere questa scelta al centro della drammaturgia del progetto. Si tratta non tanto di utilizzare location particolari per ambientarvi spettacoli o performance, ma di costruire l’intera progettualità – almeno un anno di lavoro – sul luogo scelto, a partire da analisi, studi, approfondimenti su quello specifico spazio. Come dice Heiner Goebbels, che lo scorso anno è stato ospite al nostro festival, si tratta di immaginare spettacoli e performance che non potrebbero avere luogo da nessun’altra parte.
Periferico in questo senso è un festival molto particolare perché non appoggia su un “formato” definito e ripetibile anno dopo anno, ma letteralmente si reinventa ogni volta sulla base dello spazio e della popolazione che attraversa o ha attraversato questi luoghi.

Come per la scorsa edizione, anche quest’anno Periferico prende vita nello spazio di Modena Ovest, cosa vi lega particolarmente a questo luogo?

Sì, nel 2017 abbiamo deciso di fermarci un secondo anno nello stesso luogo dove abbiamo realizzato il festival lo scorso anno, il Villaggio Artigiano di Modena Ovest. In questo momento, l’esigenza del collettivo e del festival era quella di fermarsi, di capire in che modo il nostro lavoro può depositare dei risultati su un territorio, e questo è possibile solo restando per un tempo in un luogo. Inoltre, ci sembrava di non aver esaurito le cose da dire su quest’area della città, così ricca di significati. I temi del lavoro, insieme a quello della comunità, di cui questo territorio è così carico simbolicamente, hanno sempre attraversato le nostre progettualità. Il Villaggio Artigiano di Modena Ovest è un luogo speciale della città, si tratta del primo villaggio artigianale nato in Italia. Un luogo che è rappresentativo della città perché ha saputo tenere insieme per decenni vita comunitaria e lavoro, saperi artigianali di altissima qualità e imprenditoria. Oggi è un territorio che chiede di essere ascoltato, dove si esprimono forti esigenze di cambiamento e allo stesso tempo si percepisce una sensazione di immobilismo. Questa edizione di Periferico inaugura dunque un nuovo progetto di Amigdala, che avrà sede nello spazio #OvestLab e che intende far nascere nel Villaggio Artigiano un nuovo Community Hub all’interno di una officina dismessa.

Il vostro festival riporta in piazza, per le strade, nei capannoni industriali il teatro, l’arte performativa, quali sono gli artisti che collaborano all’edizione di quest’anno?

Si tratta di artisti e opere che hanno tutti, per diversi motivi, una specifica rispondenza rispetto alle tematiche che ci siamo dati. Periferico lavora normalmente non per genere predefiniti ma andando a cercare artisti e opere che rispondono a una domanda precisa. Naturalmente occorrono sensibilità specifiche rispetto al lavoro fuori dal teatro e alla messa in gioco di dinamiche quali la relazione e il lavoro site-specific.
Il programma di quest’anno ruota in particolare attorno a un quesito che è stato per noi fondante di questa edizione: possono gli artisti operare delle trasformazioni in luoghi che sembrano cementificati nel loro presente? Se l’edizione dello scorso anno era tutta tesa a un confronto con la materia e con il fare manuale, quest’anno invece al centro del programma vi sono due parole chiave che riguardano il sogno e l’arte. Come guardare allo stesso luogo ma da una prospettiva diversa, ribaltata. Per questo il programma è fortemente votato all’astrazione, alla visione e presenta diversi lavori per operano per sottrazione. Eliminazione della presenza attoriale per esempio, come per OHT – Office for a human theatre che con JA presenta un lavoro puramente meccanico, oppure Muta Imago, una compagnia teatrale che presenta due racconti in formato video, due tentativi di rendere una narrazione attraverso una pura visione.
Vi sono poi lavori fortemente site-specific come quello di Isabella Bordoni o la galleria a cielo aperto di Ljud, un gioco scherzoso con e per la città.

 

Come avete lavorato con loro? Avete aperto un dialogo sulle modalità di coinvolgimento della collettività e di rivalutazione dei luoghi nei quali prenderanno vita i loro lavori?
Abbiamo inviato una lettera personale a quegli artisti il cui percorso ci affascinava, per motivi diversi. Con alcuni avevamo dialoghi aperti da tempo. Abbiamo descritto il nostro punto di partenza, il luogo in cui trovavamo con le nostre riflessioni, e abbiamo chiesto loro di elaborare delle possibili ulteriori domande da portare al festival. Non vi sono richieste specifiche di formati da rispettare, debutti o recite, durate e modalità. Ogni artista porta ciò che ritiene consono al contesto che noi prepariamo. Alcuni hanno il desiderio di entrare in contatto con la comunità locale, altri no. Molti di loro hanno fatto lunghi sopralluoghi e sono venuti direttamente a conoscere questo territorio, con altri abbiamo avuto lunghi scambi telefonici. Insomma, le modalità sono diverse quanto diverse sono le sensibilità e le pratiche artistiche. Tutto questo richiede tempo e disponibilità al confronto. Non si tratta di programmare semplicemente una tre giorni di spettacolo ma di calare il lavoro di ognuno dentro a una riflessione più ampia.
Ci piacerebbe andare sempre di più in questa direzione, promuovendo momenti di confronto sempre più serrato con gli artisti e spazi di co-progettazione collettiva.

Foto di Chiara Ferrin