Umano, troppo umano. Su “Uccidiamo il chiaro di luna” visto al Ravenna Festival

Interpreti forse non pienamente all’altezza di un progetto tanto meritevole quanto gravoso.

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foto di Alberto Calcinai

 

«Ventotto città in trenta giorni. Era logico che si facesse uno spettacolo al giorno, non se ne potevano fare due poiché alla fine dello spettacolo eravamo tanto conciati da pomodori, da uova marce (che la platea ci gettava) che dovevamo scappare dalla città e trasferirci in un’altra città dove eravamo scritturati. E anche in queste altre città piovevano pomodori, uova marce, pioveva di tutto»: Giannina Censi, nipote della prima aviatrice italiana nonché unica danzatrice futurista, allora adolescente probabilmente innamorata del ben più maturo Filippo Tommaso Marinetti racconta la tumultuosa tournée con lui intrapresa nel 1930-31. «Arrivammo a Roma dopo trenta giorni in uno stato pietoso. Io avevo la febbre, perché dopo lo spettacolo ci capitava addosso di tutto. Per fortuna la polizia ci aiutava, ci veniva a prendere, ci portava in albergo, dall’albergo in stazione perché l’umanità era contro di noi. Non contro il futurismo, proprio contro il nostro spettacolo». Conclude la danzatrice, all’epoca diciassettenne: «Pur pigliando pomodori e tutto quello che mi buttavano ho passato i più bei trenta giorni della mia vita».

Con altissime aspettative ci rechiamo al Teatro Alighieri di Ravenna in occasione di Uccidiamo il chiaro di luna (1997-2015) Danze, voci, suoni del Futurismo italiano. Una serata, sulla carta, imperdibile: coreografie di Silvana Barbarini, allieva diretta di Giannina Censi, riproposte nell’ambito di un progetto straordinario, RIC.CI – reconstruction italian contemporary choreography anni ‘80/’90 ideato e diretto dall’autorevolissima Marinella Guatterini, grazie al quale negli anni  sono stati riproposti capolavori del più o meno recente passato (valga citare, a mo’ di sineddoche, l’indimenticabile e-ink di MK ricostruito due anni fa per Aterballetto).

 

Giannina Censi

 

Il progetto è pienamente convincente, ça va sans dire.

Ciò che lascia un po’ tiepidi è il livello medio degli interpreti, tredici giovani danzatori della Civica Scuola di Teatro Paolo Grassi.

L’estrema pulizia formale richiesta da queste partiture letteralmente “da manuale” (di storia della danza) è purtroppo parzialmente tradita da una lunga serie di dannose micro-sbavature: dettagli, certo, ma che in una produzione di questo tipo saltano, letteralmente, agli occhi. Una quantità di sincroni imperfetti nei movimenti e alcune immobilità malferme: minime inesattezze che ottengono l’effetto negativo di rendere troppo presenti, finanche evidenti i corpi in scena.

Occorre spiegarsi meglio.

L’incontro non immediato tra il futurismo e la danza (il manifesto La danza futurista di Marinetti è del luglio 1917) corrisponde in primo luogo alla negazione di ogni antropocentrismo: «un rifiuto che escludeva tanto la soggettività, cioè il veicolo strumentale che permise l’incontro tra la danza e l’Espressionismo» spiega lo storico della danza Giovanni Lista «quanto i limiti episodici del corpo umano».

Il risultato di questa “non assoluta precisione” è che i corpi sul palcoscenico ravennate non riescono a trascendere la propria biologia, a farsi segno. Dunque, a dirla tutta, a scomparire.

«Bisogna superare le possibilità muscolari» scriveva Marinetti nel già citato manifesto «e tendere nella danza a quell’ideale corpo moltiplicato dal motore che noi abbiamo sognato da molto tempo».

Prevale una volontà comunicativa, finanche seducente (dunque “normalizzante”) che pare tradire lo spirito che mosse quelle stesse Avanguardie: «Lanciatemi un’idea, non pomodori, cretini!», urlava Filippo Tommaso Martinetti nelle agitatissime serate futuriste durante le quali gli spettatori protestavano senza freni contro un’idea di arte lontana anni luce dal già noto.

 

Filippo Tommaso Marinetti, Tavola tattile, 1921

 

Era esperienza artistica, toccare una Tavola Tattile fatta passare fra il pubblico mentre sul palco qualcuno declamava onomatopee e Giannina eseguiva partiture coreografiche difficilmente associabili alla comune idea di danza?

Era arte, anche senza emozioni facili, senza sentimenti espressi, senza “chiari di luna”, appunto?

La storia ci dice di sì.

E il lungimirante progetto RIC.CI., unitamente alla capacità di accoglienza del Ravenna Festival, quasi sempre ci aiutano a ricordarlo.

 

 

MICHELE PASCARELLA

 

Visto al Teatro Alighieri di Ravenna l’1 giugno 2017 – info: ravennafestival.org