Dialogo tra Roberto Pozzi e Alessandro Benvenuti

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A mezz’ora dalla Prima dello spettacolo «Artusi, Bollito d’amore», dialogo tra regista e autore per calmare le ansie: uno slalom terapeutico tra i Giancattivi, la Juve, il bugiardo Hugo Pratt, gli applausi «politici» a Fo e Rame e la difesa del Benigni dei tempi delle Case del Popolo

Lo intervisto poco prima del debutto di una sua regìa teatrale. A dirla tutta il testo dello spettacolo è del sottoscritto, ma sono sereno. C’è un’ottima produzione, due animali da palco come Vito e Maria Pia Timo, il tema è trasversale, ruota sul libro dell’Artusi, e il regista uno dei migliori che si possano trovare. Siamo in una botte di ferro, eppure, anche se esperto e navigato, a un’ora dalla premiere finge indifferenza. Alessandro Benvenuti è l’opposto del toscanaccio visto nei film. È di una gentilezza antica e pure un falso tranquillo. «Ieri sera, dopo la prova generale, è stata la prima volta in un mese che non ho preso goccioline. Ho dormito sette ore di fila. Ero in pace con me stesso».

Ti facevo più burbero. Sei esigente ma hai un’attenzione e un garbo verso attori e tecnici raro da trovare. «Con tre figliole e una moglie… ma andò vai? I miei m’hanno insegnato ad essere educato. Quando lavori con due attori entri dentro a due mondi diversi. Devi assumerti la responsabilità di fare loro del bene, imponendoti senza ipocrisia ma portando armonia. I produttori mi pagano, ma dobbiamo anche stare bene. La cosa più bella di ieri, finita la prova generale, è stato sentirsi sommerso da un affetto e una riconoscenza pazzesca. Che poi è l’emozione finale di questa commedia: la riconoscenza, un sentimento antichissimo e in questi tempi sottovalutato. C’ho ancora i brividi. Guarda la pelle: Swiss!».

E qui si esprime, come spesso fa, in onomatopee. «Sono nato coi fumetti. La mia casa è una fumettoteca, adesso seguo soltanto alcuni autori, tipo Neil Gaiman. Il primo film che ho fatto, Ad Ovest di Paperino, pur non avendo preso in mano neanche una macchina fotografica l’ho girato a quadri come un cartoon. Ho avuto anche la fortuna di interpretare un personaggio dei fumetti: Rasputin in uno spettacolo su Corto Maltese, operazione costosissima con Paolo Conte e Hugo Pratt, un bugiardo della madonna. Affascinante, ma le raccontava benissimo».

Mai tentato un fumetto tuo? «No, l’unica esperienza è stata per Ivo il tardivo (suo film degli anni ’90 dove il protagonista era un malato mentale, ndr). Ho cominciato a disegnare in un libro delle cose impressionanti. Ero posseduto dal personaggio, ma non avendo mai disegnato ero stupito. Non uno storyboard, ma proprio il diario grafico di questo strambo personaggio, che tutt’ora non capisco. M’hanno chiesto di pubblicarlo ma ci sono dentro anche delle cose personali, il Museo del Diario di Arezzo me lo ha prenotato ma suona come a campana a morto».

Sei di quelli che dormono con il taccuino sul comodino? «Una volta sì, facevo sogni insoliti. Un periodo difficile, molto strano. Ma ogni mattina mi sveglio con un pensiero che vorrei scrivere per racchiudere in una formula la disperazione del vivere. A volte ci sono cose che finiscono sul palco».

Più attore o regista? «Giro con cinque spettacoli in repertorio come attore. Il più longevo è Benvenuti in casa Gori che è alla sua 30ᵃ edizione, più quest’anno, tre regìe di cui una è questa».

Hai lavorato anche con nomi illustri come Ronconi. «Grande analizzatore di testi, ma aveva la strana teoria di mettere in competizione gli attori. Creava una sorta di graduatoria e ognuno recitava senza ascoltare l’altro. Io mi sono rifiutato di cadere in questo gioco. Mariangela Melato mi disse ‘Bravo, non ti sei fatto Ronconizzare’. Io da regista ho un costante rispetto verso i miei attori, faccio in modo che capiscano le loro intenzioni e quelle della storia».

Ne I Delitti del Barlume, serie tv di cui si vedrà fra poco la 4ª stagione, il ruolo l’hai ereditato dal Monni, mitico attore toscano scomparso da poco? «No, a parte che ho dovuto passare tre provini, ma Malvaldi (l’autore dei romanzi del Barlume pubblicati da Sellerio, ndr), ha scritto per me un personaggio nuovo. Morto il Monni non volevano continuare il personaggio per una forma di rispetto. Lì devo fare pure da regista in campo. I vecchietti del Barlume sono una banda di sciamannati, vengono da tante non-esperienze e devo fare il Pirlo».

A proposito, clamoroso scoop: tu toscano, sei juventino. «Sì, sono gobbo fin da bambino. Perché i fiorentini, a noi di campagna ci prendono in giro e allora non meritano niente, eh, eh. C’è lo scherno del cittadino contro il campagnolo. Io vengo da Pontassieve, e lì si tifava di tutto per fare dispetto a quelli di città. I fiorentini, per dire, mi vogliono bene ma con sospetto. Funziono se tutto è a puntino. Negli anni ’70 siamo nati come ribellione alle terribili cose in vernacolo che si facevano. Tant’è che il primo successo non l’abbiamo fatto a Firenze bensì a Bologna, all’Osteria delle Dame quando c’era Guccini».

Quanto è durata la storia dei Giancattivi? «Dodici anni. Quando ho girato Ad Ovest di Paperino il gruppo s’era già sciolto alla seconda settimana di riprese, una sofferenza. Io e Athina cambiavamo il terzo componente ogni due anni. Anzi, andavano via loro perché eravamo insopportabili, arrivammo in tv con Nuti che era già il quarto nel suo ruolo. Io e Athina eravamo terribilmente seri, prove su prove, su prove. Dei rompicoglioni. Tutti i soldi guadagnati li investivamo in luci, impianti… Erano anni così, la nostra logica era che se eri un artista di sinistra e dovevi combattere contro quelli ufficiali, che spesso erano della DC ma comunque erano bravi, tu dovevi essere perlomeno bravo come loro. Ma come? Vai in teatro e non ci sai fare? Sei una pippa e pretendi l’applauso? Ho visto certe cose fatte da Franca Rame o Dario Fo, per carità bravissimi tutti e due, ma pretendevano l’applauso politico. Io m’incazzavo. Li ho conosciuti, bravissimi ripeto, ma non puoi pretendere che la gente ti dica bravo solo perché alzi il pugno. La nostra idea era diventare i più bravi di tutti. Eravamo stimati dai tecnici degli altri gruppi, i Gatti di Vicolo Miracoli o la Smorfia di Troisi: i tecnici sono i migliori critici, il teatro lo respirano davvero e ci dicevano che eravamo avanti dieci anni. Infatti gli altri avevano più successo di noi, giustamente, perché il nostro cabaret in certe zone d’Italia era avanguardia. A noi gli alternativi non ci volevano perché eravamo più alternativi di loro. Eravamo funzionari Arci tosti, portavamo nuove cose ai Festival dell’Unità. Benigni ha cominciato con noi; cantava L’inno del corpo sciolto, gli organizzatori s’incazzavano: ‘Ma chi ci avete mandato?’. ‘Tranquilli, questo farà strada’. Benigni l’ho visto partire dalla cima della piramide, dalle cose più forti. Il Benigni degli inizi, ci folgorò con il Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, monologo che fu l’anno zero della toscanità. 45 minuti d’odio e amore contro le Case del Popolo. Capolavoro irripetibile. Gli dissi ‘Roberto, te, prima di rifare una cosa del genere passeranno vent’anni’. Ne son passati 40 e non l’ha più rifatto».

Cosa fa adesso? «L’istituzionalizzato? Non lo so. Però c’è un rispetto reciproco. Benvenuti in casa Gori l’ho fatto perché lui fece quel Cioni Mario, quindi devo molto a Roberto». Notizie di Nuti? «Francesco è quello che è… ha avuto una disgrazia incredibile ma è andato. Ma proprio andato andato, purtroppo, aldilà delle false notizie di qualche suo ammiratore. A dispetto della fortuna che ha avuto, ha pagato un conto salatissimo».

Tu racconti che negli anni ’80 per sopravvivere hai dovuto ricominciare dalle commedie commerciali che non avresti voluto fare. Hai avuto sentore che ci fossero dei Weinstein come ad Hollywood? «Mah… Ho conosciuto alcune anche molto stupide ma una maledizione così diffusa non l’ho mai incontrata. Magari un po’ di complicità tra maschietti e femminucce c’è stata, qualcuna semmai ha appeso il cappello al chiodo, s’è sposata e so di persone che sono cascate in trappole e hanno dovuto dividere il patrimonio. Beh, no, non mi riferivo a Cecchi Gori, in quel caso è stato lui ad essere stato trombato. Era un bischerone, eh eh…».

Fra mezz’ora si apre il sipario. Sei tranquillo? «No. Ieri sera sembravo epilettico, ripetevo in platea le battute a memoria. Finché non finisce, soffro».

Ma sei di quei registi che poi seguono lo spettacolo di nascosto? «No, lascio che vada con le sue gambe. Mando messaggi ogni tanto agli attori tipo ‘Siate intelligenti e non furbi’. Sul palco ci vanno loro. Un grande tecnico di teatro mi ha insegnato che l’anagramma di Teatro è Attore, e non Regista».

Artusi, Bollito d’Amore di Roberto Pozzi, con Vito e Maria Pia Timo. Regia Alessandro Benvenuti – teatrocelebrazioni.it