Perché sei qui? Una conversazione con Claudia Castellucci

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Il regno profondo. Perché sei qui? - foto di © Eva Castellucci

 

A fine novembre 2017, nei giorni di Osservatorio Màntica, hanno debuttato a Cesena la nuova lettura drammatica della cofondatrice della Societas e il più recente ballo della Scuola di movimento ritmico da lei diretta. L’abbiamo intervistata.

 

Nella lettura drammatica Il regno profondo. Perché sei qui? reciti assieme a Chiara Guidi. Ciò non avveniva da molti anni. Come avete lavorato, in questo caso?

Ci siamo basate su un testo che avevamo recitato insieme molti anni fa. Il testo originario è stato dato diverse volte, sotto diversi titoli. L’abbiamo a lungo sedimentato, provato e recitato insieme. Un fil rouge unisce questo testo, pubblicato nel volume Uovo di bocca, ad altri più recenti da me scritti: Chiara mi ha chiesto parole destinate a un registro comico. Ho cercato nel mio archivio quelle che più obbedivano a questo carattere.

È una novità, per te?

No, da sempre pratico la comicità, ma senza obbedire a una logica causa-effetto. La comicità che io ho trascinato nei miei testi -e quindi non ho inseguito- è sempre successiva, sorge dopo un po’, in ritardo: può quindi forse essere meglio definita ironia. Essa insegue innanzi tutto sé stessa, diventando auto-ironia nei confronti degli argomenti, che toccano registri profondi dell’esistenza, o ironia nei confronti dello stile, spesso praticato secondo norme auliche, o quantomeno classiche. È un modo per alleggerire una sostanza che di per sé sarebbe assai pesante.

Quale ambiente avete costruito, per questa lettura?

Abbiamo immaginato un ring degli anni Cinquanta per la boxe: un podio centrale circondato da persone. Nelle foto d’epoca è suggestivo vedere questi ambienti, con la luce che proviene dall’alto, a pioggia, e il fumo che invade lo spazio. Abbiamo voluto richiamarlo, anche se non in maniera precisa: mancano le corde, ad esempio. È una scena ostentatamente austera, monolitica, in cui la seduzione dei colori e delle forme è ridotta al minimo.

E le vostre figure?

Due donne mature, gravate di tutti gli anni trascorsi, si ritrovano a recitare versi all’unisono, con una voce che con il passare del tempo si divide, diventa doppia, fino a dar luogo a un vero e proprio dialogo.

Quali attenzioni richiede eseguire un sì perfetto unisono?

È stato innanzitutto determinante il tempo passato ad allenarsi su una partitura musicale, composta da Chiara con segni neumatici: grafie utili a ricordare le altezze e gli accenti. Dopo tanti anni la struttura è talmente incorporata in noi che i neumi ci servono solamente come memoria rapida degli occhi, ma all’inizio furono un ancoraggio fondamentale.

Il testo è attraversato da un’inflessione pseudo-dialettale.

Fu, fin da subito, un’invenzione di Chiara. Non c’è nessun dialetto, ma sembra un’inflessione proveniente da una regione profonda d’Italia. Richiama un buco della terra: un luogo disancorato dalla generalità, dal linguaggio comune, dalle abitudini generali. È un linguaggio regredito a una condizione medievale della vita per cui non si va oltre il proprio retaggio, il proprio borgo. Occorre a testimoniare uno stato di primitività dell’esperienza umana.

Una caratteristica anche di ciò che viene detto.

Sì. Sono domande elementari, primarie, poste da due figure sole, gettate in un qualsiasi luogo: potrebbe essere la Patagonia come la Romagna, l’Ungheria come la Sicilia.

Quale relazione instaurate fra testo, inflessione e comicità?

Se questo testo fosse stato recitato in dialetto sarebbe stato qualcosa da irridere, o da deridere. Nella nostra lettura vi è, ribadisco, una profonda ironia: verso sé, verso le proprie domande, verso un testo che necessita di regredire per essere il più possibile sincero rispetto al significato che vuole far emergere. L’inflessione correttamente italiana lo avrebbe gravato di un’ipoteca di tipo filosofico, che non si vuole ostentare: qui vi è una filosofia pratica, quotidiana.

Dunque la forma monodica scelta da Chiara Guidi per la composizione marcia parallela alla basicità delle domande che ponete?

Certamente. Nella storia della musica la monodia appartiene a un modo arcaico di cantare: penso al gregoriano arcaico, mono-fonico e mono-tono. Questa attitudine è un tutt’uno con il nostro chiedere elementare, con una riflessione che solitamente avviene quando si è malati, o costretti a star da soli per un po’. Sono pensieri che di solito si fanno tra sé e sé: per questo motivo la monodia è appropriata. Lo è, inoltre, perché comunica l’accento della severità: non vi è ammiccamento, qui, vi è solamente ilarità, suscitata dall’ironia.

Per sintetizzare: la funzione dell’ironia, nella vostra lettura, è porre una distanza fra sé e ciò di cui si parla, come sosteneva Socrate?

Esattamente.

 

Il regno profondo. Perché sei qui? – foto © Societas

 

Il testo, come dicevamo, è in parte pubblicato in un tuo libro di qualche anno fa, Uovo di bocca. Per il fruitore le parole ascoltate in scena cosa hanno -in più, in meno o di diverso- rispetto a quelle lette sulla carta?

Poni la domanda originaria, che lega la poesia o all’oralità o alla scrittura. A mio parere la poesia dovrebbe essere orale: scritti composti con una preoccupazione metrica e ritmica andrebbero sempre pronunciati. Ma viviamo in una condizione che difficilmente lo permette.

Il dire queste parole si pone come parte costitutiva della vostra opera, dunque?

Sì.

Potresti allora immaginare altre persone che recitano i tuoi testi lirici?

Sarebbe certamente possibile, né più né meno dei miei testi drammatici. Recentemente ne ho scritti per mio fratello Romeo. Li ho composti immaginandoli recitati, per questo motivo hanno tutti un andamento metrico.

Dal punto di vista del contenuto, lo stare costantemente vicini alla parte più elementare dell’esperienza umana costituisce, analogamente a svariate proposte delle Avanguardie e delle Neoavanguardie, una funzione esortativa nei confronti del fruitore?

Forse sì. Ma, pensando ai miei scritti, poesie e dialoghi, preferirei parlare di didascalia. Penso a Virgilio, nell’età classica: naturalmente non voglio paragonarmi a lui, sarebbe ridicolo, ma come nel suo caso anche i miei testi vogliono indicare precisamente qualcosa. Nella didascalia è evidente una direzione di contenuto, della quale il fruitore fa ciò che vuole. Qualcuno scrive con lo scopo evidente di esortare, io scrivo con l’obiettivo di manifestare. Sono più concentrata sugli argomenti che sul loro eventuale destino di insegnamento o di esortazione. È l’argomento stesso che mi induce a una scrittura di tipo didascalico, con le caratteristiche che ne conseguono: asciuttezza, severità, concatenazione, logica, attitudine argomentativa, principio di non contraddizione. E ironia.

Quale rapporto con l’esperienza si istituisce, qui?

Le ricorrenti cadute di tono zavorrano un testo che sarebbe destinato ad essere astratto, perché basato unicamente su idee, ma che così è ricondotto alla pozzanghera della quotidianità.

Secondo quali principi entrate in relazione con lo spettatore?

Il regno profondo è un ciclo composto da tre letture drammatiche: La vita delle vite, Dialogo degli schiavi e ora Perché sei qui?. Tre episodi coerenti nella formulazione: sono il sermone o il comizio di qualcuno che si pone chiaramente di fronte a una platea. Sono discorsi, le azioni sono praticamente assenti. La figura ha dalla propria parte unicamente argomenti da sciorinare, davanti a sé un pubblico che ascolta. La finzione è ridotta al grado zero: si istituisce un rapporto contemporaneo e attuale tra una dichiarante e un pubblico.

 

Scuola di movimento ritmico Mòra – foto © Societas

 

La lettura drammatica ha debuttato a fine novembre 2017 nell’ambito di Osservatorio Màntica. Negli stessi giorni è stato presentato anche il più recente ballo della Scuola di movimento ritmico Mòra, da te diretta. Quale filo unisce questi mondi all’apparenza così distanti?

Le interrogazioni, le questioni e gli argomenti che sviluppo in tutti gli altri oggetti del mio lavoro -saggi, scritti lirici, interpretazione, conduzione della scuola- nella danza diventano pratica. Non vi è teoria, nella danza, vi è un fare che è già filosofia.

Perché ti sei avvicinata alla danza?

Sono giunta alla danza in seguito al pensare. Ma a un certo punto non è più bastato: occorreva agire. Non ho trovato azione nella politica, l’ho trovata nella danza. Essa, per me, costituisce un agire che traduce immediatamente nel fare tesi, scelte e decisioni. Per questo considero la danza una vera filosofia morale.

Essa dunque è una possibile risposta alle domande che poni in Il regno profondo. Perché sei qui?

Sì. Così come lo sono tutti i prodotti che vengono alla luce nel mio lavoro: le scritture, gli oggetti, i quadri, le scuole. Sono risposte in quanto concrezioni: cose cadute nel mondo. Non lasciano in sospeso.

La danza accoglie la possibilità dell’errore?

Ogni volta che si danza si ha davanti a sé la minaccia dell’errore, che sistematicamente viene a sfasciare l’ordine che essa pone e propone. L’errore distrugge una forma e al contempo ne propone un’altra: per questo motivo non è possibile dissimularlo. In passato ho creato danze nelle quali l’errore dava luogo a un’erranza: grazie ad esso si era indotti a percorrere un’altra via, prevista e da sviluppare. Ma ora preferisco la minaccia dell’errore che distrugge.

Il tuo lavoro contempla la commozione?

La commozione connota il rapporto teatrale tra una platea che corrisponde a quello che vede come qualcosa che la inerisce nel profondo: si trasferisce un proprio sentire a ciò che accade in scena, attraverso un processo di identificazione mimetica. In questo caso, al contrario, si istituisce una distanza epica, per usare un’espressione brechtiana. La commozione se c’è, e io credo che debba esserci, emerge attraverso la recita: un vivente che dichiara con freddezza e austerità parole che acquistano spessore emotivo grazie al loro darsi materiale. Il che significa, dato che non possiamo confidare in altro che non sia voce, tono e musica: elementi che offrono alla percezione vie che corroborano il testo dal punto di vista della sensazione. E, dunque, del sentimento.

 

MICHELE PASCARELLA

 

info: societas.es