Belve di Massimiliano Civica, rappresentazione della rappresentazione

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Belve - foto di Duccio Burberi

 

A partire da un’esplicita dichiarazione d’intenti dell’amato regista reatino, divulgata in occasione del debutto del suo nuovo spettacolo, alcune note sull’influenza dei discorsi attorno al teatro.

A scanso di equivoci: in queste poche righe non si entrerà nel merito di Belve, il nuovo spettacolo diretto da Massimiliano Civica prodotto dal Teatro Metastasio di Prato e lì debuttato il 17 aprile scorso: nel giro di pochi giorni sono già state pubblicate numerose, autorevoli analisi critiche (vale ricordare almeno, tra quelli pubblicati online, i testi di Massimo Marino su Doppiozero, di Gaia Clotilde Chernetich, Alessandro Iachino e Andrea Pocosgnich su Teatro e Critica, di Andrea Porcheddu su Gli Stati Generali, di Giuseppe Distefano su Sipario e di Mario Bianchi su Krapp’s Last Post).

Pare ridondante aggiungersi al coro: non si ragionerà dunque sul sistema di segni costruito dalla tagliente reiterazione di entrate e uscite, dal ritmo sincopato, dalle sospensioni raggelanti, dal carattere bidimensionale e finanche fumettistico degli interpreti («piccoli pieni in mezzo a un grande vuoto» si potrebbe dire parafrasando Beckett), dal far affondare -o emergere- parole e suoni nel/dal silenzio, dalle micro-variazioni significanti, dalle tensioni drammaturgiche e dai sincroni attorali, dall’approccio propriamente elementare di questa farsa crudele che, non solo per temi, non può non ricordare l’allestimento che dodici anni fa il Teatro delle Albe di Ravenna fece di Sterminio di Werner Schwab (dalla cui presentazione una citazione dal Diario di Tolstoj del 1854 pare perfetta, ora: «Guardo per ore intere col cannocchiale come fanno gli uomini ad ammazzarsi»).

 

Belve – foto di Duccio Burberi

 

Ciò che si desidera fare, qui, è prendere in esame un aspetto di Belve che, seppur marginale, forse può dire qualcosa sul nostro modo di avvicinare l’esperienza estetica, qualunque essa sia. Nel foglio di sala che accompagna lo spettacolo, Civica dichiara a chiare lettere: «La nostra scommessa è quella di mettere in scena una farsa che faccia ridere il pubblico non a denti stretti ma a bocca aperta». E ancora: «Non ci sono scuse con la farsa, o il pubblico ride, e ride tanto, oppure si è fallito: la risata è d’obbligo».

Vien da affiancare la definizione proposta nel Manuale minimo dell’attore di Dario Fo: «farsa, dal basso latino farsa o farcita, altro genere di torta-focaccia (laziale campano) rimpinzata (farcita) di ingredienti diversi».

Immaginari gastronomici e risate a bocca aperta: in entrambi i casi si propone, se così si può sintetizzare, il racconto di un racconto, la cui credibilità è direttamente proporzionale all’autorevolezza di chi lo pronuncia.

Se è vero che ogni tipo di comicità ha per sua propria natura (almeno da Aristofane in poi) una funzione critica nei confronti della società, nel caso di Belve ne pare prevalere il valore sociale.

Si tratta di una doppia questione: quella dell’influenza di un gruppo sociale, con il suo carico di strutture e di valori, sul sorgere della comicità e quello dell’effetto di tale comicità sul gruppo stesso. Il comico è originariamente un fatto collettivo: gli schemi (comporta)mentali di ciascuno, funzionanti anche in relazione al comico, si formano in rapporto alla società in cui si è immersi.

Detto altrimenti: il contesto è di costitutiva importanza.

 

Massimiliano Civica

 

Civica è un artista di indubbio valore ed esperienza, che da tempo fa incetta di autorevoli e meritatissimi premi e riconoscimenti. I suoi spettacoli sono spesso considerati capolavori. Chi fosse interessato può leggere, tra le molte, anche le nostre entusiastiche righe sui suoi recenti Un quaderno per l’inverno e L’emozione del pudore.

Nel caso di un teatrante tanto avveduto, forse, il desiderio di dichiarare «il gusto per una sfida pericolosa», invece di affrontarla e basta, risponde alla comune necessità di narrazione: per costruirci un’immagine del mondo e in esso individuare una nostra postura.

Alcuni artisti “visivi” han riflettuto su questo, mettendo in crisi, o quantomeno in luce, l’abituale e spesso inconsapevole modo di ricevere il fatto artistico, a qualunque disciplina esso afferisca. Un’attitudine che si potrebbe brutalmente sintetizzare con un’idea di bellezza, e dunque di arte, vecchia di secoli: “bello questo quadro che raffigura un albero, e bravo questo pittore, l’albero sembra vero” oppure “Ho visto un film ieri sera, bello… e poi è tratto da una storia vera!”. Insomma: imitazione della natura come indice e parametro di artisticità.

 

Joseph Kosuth, One and three chairs, 1965

 

A dialogare con un tale pluricentenario sentire, Jannis Kounellis nel 1969 a Roma, alla Galleria L’Attico, fa portare dodici cavalli vivi, con tanto di nitriti ed effluvi, in vece di quadri, sculture, video o fotografie: presentazione vs rappresentazione. Su questo: la rivoluzione dei ready made duchampiani, che a distanza di oltre un secolo colpisce ancora (e ancora fa irritare) l’immaginario di molti. “È una vergogna, questo lo so fare anch’io”. O infine, ma si potrebbe a lungo continuare, Joseph Kosuth crea le famose terne, che includono il ready made di un oggetto (Tu es le fils de quelqu’un…), la fotografia del medesimo oggetto e la sua definizione presa dal vocabolario. Una sedia, la foto di una sedia, le parole che definisco la sedia. Un processo evaporativo, se visto in questa successione, nel senso di un cambio di stato: un oggetto fisico e palpabile dematerializzato nel suo equivalente discorsivo. Dalla cosa al racconto della cosa.

Per unire questo a quello: Le parole e le cose di Foucault si apre con una descrizione e un dettagliato commento del quadro Las Meninas di Diego Velázquez e della complessa composizione delle sue linee di piano e dei suoi effetti nascosti. «Può essere che ci sia, in questo quadro di Vélasquez, come la rappresentazione della rappresentazione classica», scrive Foucault.

 

Diego Velázquez, Las Meninas, 1656

 

Al di là dei discorsi (di critici o artisti), di cappelli e orpelli, della diretta percezione di chi le opere le incontra a denti stretti o a bocca aperta, questo non è forse, a ben guardare, ciò che ha fatto Civica?

 

MICHELE PASCARELLA

 

Belve, regia di Massimiliano Civica – visto al Teatro Metastasio di Prato il 21 aprile 2018