«Come illuminati dall’interno»: dialogo con Ewa Benesz a Ca’ Colmello

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foto di Francesco Cabras

 

Nella Casa Laboratorio sulle colline bolognesi l’attrice polacca sta conducendo in questi giorni un workshop che pone al centro la pratica di antichi canti vibratori. L’abbiamo intervistata.

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Alla sesta edizione di S.I.A – Sottili Innesti Amorevoli, rassegna di workshop residenziali e spettacoli a cura dell’associazione culturale Baba Jaga, stai proponendo un’esperienza intitolata Le pratiche vocali. Puoi dare la tua definizione di due termini, ci rendiamo conto, smisurati: pratica e vocalità?

Ogni abilità sorge dalla pratica. Pratico e condivido strutture vocali e canti provenienti da diverse tradizioni, epoche storiche, aree geografiche. Ricerco la voce, che non esiste senza la pratica. Non cerco lo stile o l’espressione. Non mi interessa quindi la vocalità inserita in categorie estetiche. Avevo già in mente il titolo Pratica vocale, l’ho confermato dopo aver ascoltato una trasmissione radiofonica su Claudio Monteverdi e sulla sua “Seconda pratica”.

Quale tipo di attenzione si instaura, attraverso questo fare?

L’essere qui e ora. L’orecchio sente, l’occhio vede, il corpo percepisce la vibrazione. Non possiamo accelerare, forzare. Non possiamo voler essere più perfetti di ciò che siamo. Solo attenti, vigili. Grotowski diceva: «Sii come se ci fosse una parte di te attiva e una passiva. Una vuole, l’altra non vuole». Solo nello stato di quiete si avverte ciò che è minuscolo. L’attenzione è questa: il piccolo si trasforma nel grande. Ogni pratica si basa su dettagli minuti.

 

 

«Avviene come quando camminiamo nel bosco e a un tratto, inaudita, ci sorprende la varietà delle voci degli animali. Fischi, trilli, chioccolii, tocchi come di legno o metallo scheggiato, zirli, frulli, bisbigli: ogni animale ha il suo suono, che scaturisce immediatamente da lui. Alla fine, la duplice nota del cucco schernisce il nostro silenzio e ci rivela, insostenibile, il nostro essere, unici, senza voce nel coro infinito delle voci animali» e ancora «La cicala – è chiaro – non può pensare nel suo frinito»: sono frammenti da Il linguaggio e la morte di Giorgio Agamben, tornano utili per chiederti di definire quale relazione fra animalità e pensiero si istituisce, nella pratica che proponi? 

Ho lavorato per alcuni anni nella foresta a Brzezinka vicino a Breslavia, nella sede del Teatro Laboratorium di Grotowski nel periodo parateatrale. Ho ascoltato profondamente le voci della natura e sono stata sorpresa da come esse siano sempre in armonia. Le dissonanze sono rare. Alcune pratiche vocali che propongo furono create migliaia di anni fa, in un periodo in cui l’uomo si sentiva parte della natura stessa. Fu allora che creò la lingua parlata, secondo gli studi dell’antropologo e musicologo tedesco Marius Schneider. L’umanità ha conservato tali pratiche per non dimenticare la propria origine. Se è vero che abbiamo imparato a scrivere osservando la geometria delle stelle nel cielo, possiamo forse supporre che abbiamo imparato a emettere la voce ascoltando i suoni della natura. Sono ancora sorpresa dall’episodio che sto ricordando in questo momento, sebbene sia accaduto decine di anni fa: in un parco, durante una passeggiata, una donna stava portando un bambino nel passeggino. A un certo punto un uccello, che volava basso, emise un forte suono. Il bambino rispose alla voce dell’uccello. Penso che le voci della natura siano incluse nelle fonetiche delle lingue. 

Ciò ha a che fare con la ricerca di un corpo naturale? In generale: credi che ciò sia pienamente possibile, o si tratta di una desiderabile astrazione? 

Non riesco a determinare che cosa sia un corpo naturale. So che i vocalizzi, le sequenze vocali, i canti di queste antiche pratiche sopravvissute da millenni influenzano il corpo e la mente. Puliscono e risvegliano qualcosa che abbiamo dimenticato, che è dormiente nel profondo della nostra memoria.

 

foto di Francesco Cabras

 

Le pratiche vocali è un laboratorio da te già sperimentato in diverse occasioni. Quale spiazzamento solitamente propone, a chi vi partecipa?

Non parlo molto con le persone. Di solito chiedo loro cosa li ha aiutati e quali sono stati gli ostacoli nel processo di partecipazione. Se hanno trovato qualcosa di necessario e vero, ritornano. I laboratori sono unici. Ogni volta, nonostante mantenga la medesima struttura, funzionano in modo diverso. Qualcosa di differente e unico accade. Ho notato come le persone cambiano: i loro volti si distendono, appare un bagliore nei loro occhi, il corpo abbandona il peso dei loro pensieri, diventano come illuminati dall’interno. 

Il workshop che stai guidando a Ca’ Colmello ha contenuti o elementi peculiari, rispetto ad altre tue esperienze analoghe? 

Sì, sicuramente ogni luogo influisce sull’esperienza e sullo “spirito” del gruppo. Il laboratorio residenziale immerso nell’ambiente naturale, in un luogo preparato con cura come Ca’ Colmello, può permetterci di andare più in profondità. Durante l’incontro ci può essere un’azione nel canto, cioè può accadere qualcosa che non era prevedibile. L’azione non viene creata né dalla testa né dalla nostra volontà: nasce da una reazione a noi sconosciuta. 

Com’è possibile incidere sul modo di percepire la propria voce, in soli cinque giorni? 

È una questione di fiducia in sé stessi e negli altri. La cosa più importante è smettere di avere paura, accettarsi e dimenticarsi di sé… paradossalmente. Diventiamo noi stessi quando ci dimentichiamo di noi stessi. Corriamo quando smettiamo di pensare che corriamo. Vediamo quando non pensiamo di vedere. Lo stesso accade con la voce e  con il canto. La voce vera si svela in alcuni brevi attimi.

 

 

«Le Pratiche Vocali provengono dalle antiche tradizioni dell’Oriente, del Tibet, dell’India, della Mongolia e del Giappone, dalla ricerca antropologica sul canto sciamanico», si legge nella presentazione del tuo workshop. Come hai incontrato questi materiali? E secondo quali principi didattici li hai selezionati? 

È accaduto anni fa. Poi nello sviluppo della mia ricerca sono rimaste le pratiche dal Tibet e dall’India. Sulla base dei suoni giapponesi ho creato un canto/azione, che è importante per le persone e per me. E funziona. Ora sto cercando di più all’interno della cultura mediterranea, ossia nelle aree del Medio Oriente, di Grecia ed Egitto, seguendo le tracce rivelate da musicologi e antropologi, principalmente da Marius Schneider. 

Tu hai formazione ed esperienza d’attrice. Il laboratorio che proponi è indirizzato a persone che fanno quel mestiere? Un non addetto ai lavori cosa potrebbe ricavare? 

Il laboratorio è aperto a tutti coloro che sentono il bisogno di partecipare. Ci sono attori, cantanti e insegnanti di scuola, medici, poeti, persone che hanno problemi con la voce. Succede anche che vengano partecipanti che non hanno mai cantato, perché mancava loro il coraggio, sono stati bloccati da alcune esperienze negative della loro infanzia.

 

Hai collaborato con l’Instytut Aktora-Teatr Laboratorium diretto da Jerzy Grotowski in Polonia. Come era strutturato il lavoro con lui?

Le strutture sono cambiate, sono state svariate, a volte diametralmente opposte. Quando sono giunta al Teatro Laboratorium, abbiamo iniziato le prove per Samuel Zborowski di Juliusz Słowacki. Le prove iniziavano alle 7 del mattino. Quando Samuel si trasformò nell’ultima fase del Vangelo, le prove iniziavano alle 20 di sera, Grotowski lavorava alcune ore con Cieślak, poi spesso andavamo in sala a mezzanotte, le prove duravano fino alle 4 o le 5 del mattino. La struttura dipendeva dal processo di lavoro, dalla condizione di Grotowski e dal gruppo. Questo è essenziale: Grotowski non ha mai detto all’attore cosa fare. Dopo le prove diceva: «credo» o «non credo», o «questo momento ha qualcosa in sé, qui puoi scavare». Ci sono stati due stadi di creazione: prima le improvvisazioni, poi un lavoro minuzioso su frammenti selezionati dalle improvvisazioni. È facile improvvisare, il trucco è essere in grado di mantenere l’azione e ri-evocarla ogni volta. 

A distanza di tanti anni cosa permane nella tua prassi, di quell’esperienza?

Nel programma delle pratiche vocali propongo spesso esercizi sulla voce che Grotowski ha fatto con me. Uso anche elementi del training dell’attore, esercizi plastici creati da Rena Mirecka e fisici creati da Ryszard Ciećślak, e anche quelli elaborati da Zygmunt Molik nei suoi laboratori di voce. Nell’ altro laboratorio che conduco, Nell’atto del creare, pratico alcune attività del periodo del parateatro e del Teatro delle Sorgenti.

 

foto di Francesco Cabras

 

Dal 1982, prima con Rena Mirecka e poi autonomamente, realizzi progetti parateatrali, che mettono in primo piano l’esperienza dell’attuante, per usare una terminologia grotowskiana. Qual è la funzione del pubblico, se e quando previsto?

Non c’è e non ci sarà pubblico, durante laboratorio. Il pubblico può essere previsto quando esiste una struttura fissa. Questo non vuol dire che le pratiche non abbiano una struttura, anzi, esigono un rigore estremo nell’esecuzione. Una decina di anni fa ho lavorato con un piccolo gruppo internazionale sui miti della creazione del mondo, provenienti prevalentemente della culla della nostra cultura mediterranea. Alla fine quasi tutti i componenti del gruppo hanno presentato la loro ricerca al pubblico del Festival in Polonia del quale sono direttrice artistica. 

Per concludere: quale voce stai cercando, in questo esatto momento della tua vita?

Quella che non conosco ancora. I momenti in cui la voce è un evento: per trovarli, non si dovrebbe cercarli direttamente. Cos’altro voglio fare? Provare ad unire le pratiche della tradizione esoterica, pitagorica e gurdjieffiana con alcuni risultati delle ricerche della NASA: potrebbe rivelarsi interessante. 

MICHELE PASCARELLA

 

25-29 luglio – Sassoleone (BO), Casa Laboratorio Ca’ Colmello, via Gesso 21 – info: 349 2826958, 340 7823086, info@babajaga.it – web: babajaga.it, grotowski.net/en/encyclopedia/benesz-ewa