Albe e Societas, per me pari (non) sono

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foto di Paolo Ruffini

 

La decima edizione della Vetrina Colpi di Scena a cura di Accademia Perduta ha ospitato, fra molti, gli spettacoli delle due storiche compagnie romagnole. Alcune note.

«Da qualsiasi punto di partenza il discorso s’allarga a comprendere orizzonti sempre più vasti, e se potesse continuare a svilupparsi in ogni direzione arriverebbe ad abbracciare l’intero universo» ci spiega e consola il Maestro Calvino che ragiona di Gadda: a dichiarar, noi, fin da subito, la difficoltà a far sintesi di due modi-mondi che nella ricerca teatrale italiana et ultra degli ultimi decenni han fatto storia e scuola.

L’occasione, benemerita, è la decima edizione di Colpi di Scena, vetrina delle più importanti e significative nuove produzioni di Teatro Ragazzi dell’Emilia-Romagna che Accademia Perduta/Romagna Teatri ha curato dal 2 al 5 luglio scorsi.

 

foto di Gianluca Camporesi

 

Del fitto programma noi abbiam visto solo due spettacoli. Bellissimi.

Molti gli orditi possibili. Ora ci piace tesser la trama della loro irriducibile peculiarità, che è caratteristica di vivezza e futuro, alla faccia di ogni polpettone-carrozzone-minestrone annichilente, anestetizzante, omogeneizzante.

Parliamo di Thioro. Un Cappuccetto Rosso senegalese, co-produzione di Teatro delle Albe/Ravenna Teatri, Ker Théâtre Mandiaye N’Diaye (Senegal) e Accademia Perduta/Romagna Teatri e Inferno. Esercizi per voce e violoncello sulla Divina Commedia di Dante di e con Chiara Guidi della Societas, in scena insieme a Francesco Guerri, artista con tale carattere da reggere la scena insieme a cotanta attrice. E non dev’essere impresa di poco conto.

A proposito, sui soggetti in questione: nulla da aggiungere ai mille libri che si son scritti e si scriveranno sul fare e pensare e desiderare di questi pezzi fondanti di Romagna Felix che se quando hanno prodotto assieme (leggi: Poco lontano da qui, 2012) non han brillato forse al loro meglio, certo non è in queste poche, povere righe che li si vuol rimescolare.

Diversità, dunque, benemerita sacrosanta unicità, modi profondamente altri di intendere “il fatto teatrale”: la scena, il rapporto con il pubblico, la drammaturgia, la scrittura dei suoni e dei colori.

 

foto di Paolo Ruffini

 

Tanto le parole di Thioro hanno origine e struttura ontologicamente orale quanto quelle dette (masticate, espettorate, sibilate… quanti verbi si dovrebbero usare…) da Chiara Guidi sono letteratura. Perfetto Walter Ong, ora: «Le culture orali non mancano di un loro tipo di originalità. L’originalità narrativa ad esempio non sta nell’inventare nuove storie, ma nel creare una particolare interazione col pubblico: ogni volta il racconto deve essere inserito in modo unico in una situazione anch’essa unica, poiché nelle culture orali il pubblico deve essere portato a reagire, spesso in modo vivace» (ricordi d’università: Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, Il Mulino, 1986).

A tal proposito: tanto il lavoro delle Albe è caldo quanto quello di Societas è freddo. Per chiarezza: usiamo questi termini collocandoli del tutto arbitrariamente su un’asse mutuata da Marshall McLuhan. Vale forse ricordare che per il sociologo e filosofo canadese “freddi” sono i medium a “bassa definizione” (che richiedono una “alta partecipazione” dell’utente per riempire, completare le informazioni non trasmesse), mentre “caldi” sono quelli caratterizzati da un’alta definizione e di conseguenza da una minor partecipazione richiesta/necessaria affinché l’atto comunicativo possa compiersi. Detto altrimenti: tanto il terroso racconto delle Albe è estroflesso, si sporge incontro al pubblico quanto gli Esercizi istituiscono la dinamica opposta.

 

foto di Gianluca Camporesi

 

Tanto il Cappuccetto Rosso senegalese acquista forza e valore (e quanta forza! e quanto valore!) proprio perché inserito in un preciso momento della storia del gruppo e del mondo (sa il cielo quanto ci sia bisogno di rigorosi e al contempo gioiosi dispositivi interculturali, in quest’epoca di oscurantismi e muri alzati, musi lunghi e porti chiusi), tanto Inferno potrebbe porsi in un qui e ora che si dilata fuori dal tempo, a dar voce e ossa e carne e nervi a parole scritte da secoli. Per secoli. Walter Ong, ancora: «Il linguaggio scritto sviluppa una grammatica più elaborata e fissa di quella orale, poiché il significato dipende di più dalla struttura linguistica, mancando il contesto, che invece contribuisce a determinarlo nel caso del discorso orale».

Ancora. Tanto il gioioso intreccio melodico-ritmico dei suoni di Thioro riempie il racconto quanto quello inaudito e a tratti magneticamente dissonante degli Esercizi lo polverizza in uno smisurato vuoto: è il debordare di un grande silenzio, direbbe la Yourcenar.

Tanto Inferno pare avere necessità di un luogo cavo, scuro, quanto lo spettacolo delle Albe potrebbe darsi e farsi in ogni dove, vien da pensare, e più ci son vita e voci e colori attorno e meglio è.

 

foto di Paolo Ruffini

 

Unico elemento comune, pare di poter affermare, è il viaggio, inteso sia come contenuto referenziale che come esperienza proposta allo spettatore.

C’era una volta un piccolo villaggio nel mezzo della savana del continente africano, nello stato del Senegal, nella regione di Thiès più precisamente nella comunità rurale di ndieyene sirakh nel comune di khombole; un villaggio così piccolo ma così piccolo che non è segnato nemmeno sulla cartina geografica.

l’incipit dell’uno e

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.

Ahi quanto a dir qual era è cosa dura
esta selva selvaggia e aspra e forte
che nel pensier rinova la paura!

Tant’ è amara che poco è più morte;
ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai,
dirò de l’altre cose ch’i’ v’ho scorte.

dell’altro.

Particolare che si fa universale, luogo geografico e luogo altro, a proporre vive occasioni di incontro fra umani, eventi che si fanno luogo.

Come non pensare a De Certaeau, là dove riflette sulla «necessità di fondare il posto da cui [si] parla», precisando: «Tale posto non è affatto garantito da enunciati autorizzati, o «autorità », sui quali il discorso poggerebbe, e neppure da uno statuto sociale del locutore nella gerarchia di un’istituzione dogmatica […] Il suo valore proviene unicamente dal fatto che si produce proprio nel punto dove parla il Locutore […] la sola autorizzazione gli viene dall’essere il luogo di questa enunciazione».

 

foto di Gianluca Camporesi

 

Luogo caldo o freddo che sia, qualunque sia l’attitudine, l’inclinazione a protendersi o ritrarsi di chi porge e di chi riceve il racconto.

Luoghi geografici, luoghi altri: a cosa serve, al fin, tutto questo?

Immanuel Kant, grande geografo anche se è noto più come filosofo, sosteneva che la geografia non è una scienza, ma è uno di quei saperi che serve per leggere i giornali.

 

MICHELE PASCARELLA

 

PS Non abbiam per nulla descritto gli spettacoli. Poco male. Il lettore desideroso avrà certo modo di incontrarli di persona, se lo vorrà, in molti teatri e piazze del mondo. Per fortuna.

 

Visti a Forlì il 4 e 5 luglio 2018 – info: accademiaperduta.it, teatrodellealbe.com, societas.es