Il guardiano delle parole. Intervista a Maurizio Maggiani

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Maurizio Maggiani è un anarchico (nemmeno tu che leggi sai cosa sia un vero anarchico, confessa). Scrive per lavoro. Ha 66 anni e l’aria di uno che ha vissuto e vive intensamente. Burbero e gentile. Non ha Facebook, Twitter, Instagram perché ha troppo poco tempo da vivere per sprecarlo a sentire discorsi inutili. Non sopporta chi lo presenta come l’autore italiano più premiato, «Chi sta più antipatico di quello che ha vinto tanto?».

Lo trovo in giardino che litiga con l’IPhone, «Tu devi solo riprodurre i brani!». Perché insiste nel riprodurre brani in modo casuale e non segue l’ordine alfabetico che lui vorrebbe. Ma come? Da uno dei primi Mac user italiani non me lo aspettavo. «La situazione mi è un po’ sfuggita di mano». Ascolto gli artistici improperi che finiscono quasi tutti con schifa vile. Rinuncia.

«Cosa fai? Da dove vieni? Dove vai?».

Cominciamo bene, dovrei fare io le domande, ma ha capito che anche a me piace raccontare. Non si accontenta di risposte generiche o non precise, vuole i dettagli. «Cosa vendi?» Gli racconto del lavoro che pochi giorni dopo lascerò. «Quindi tu sei interessante?». Devo recuperare terreno ma stiamo parlando di social da mezz’ora quando mi dice che lui ha solo mezz’ora per l’intervista. Gli confesso che non lo conoscevo, ma per l’intervista l’ho letto tanto. «E perché mi intervisti se non mi conoscevi? Ecco io già m’incazzerei». Provo a comprarlo con un pranzo ma non gli piace il mangiare romagnolo…

Ho provato a studiare l’anarchia. Mi sono perso, ho capito solo che tanti hanno una idea distorta. Si può dire che l’anarchia ha a che fare con la gentilezza? «L’anarchia è signorilità. Ero ragazzino, mio nonno mi ha spiegato l’anarchia (lo dice in dialetto, ndr): ‘Perché vedi, anarchia vuol dire che siamo tutti uguali. Ma non siamo tutti uguali come vogliono quelli là (e indicava i preti, i comunisti, tutti…) perché siamo tutti servi. Ma siamo tutti uguali perché siamo tutti signori’. E mio nonno era un contadino, semi analfabeta, morto di fame. Etimologicamente il signore è il responsabile, il guardiano. Non è il padrone. Il responsabile del proprio destino, per cominciare. Infatti mio nonno mi diceva: ‘Di destini ne abbiamo sempre due. Il destino che vuole il tuo padrone e il destino che vuoi te’. Anarchia non è una ideologia. Tanti pensatori ma non un pensiero strutturato. Anarchia è trascendenza. Io so che non la vedrò mai, perché questa umanità non può realizzarla, è troppo povera e debole, ci vuole l’umanità nova».

E quindi? «Il compito dell’anarchico è costruire l’umanità nova, con il suo pensiero, con il suo esempio, con il suo lavoro. Sono responsabile del mio destino, responsabile del destino dell’universo intero».

Ma non è frustrante? «La mia gratificazione è in quello che sto facendo, nella bellezza della mia signorilità. Guarda le foto degli anarchici di fine ’800. Loro erano signori, eleganti anche se morti di fame, portamento signorile, alle manifestazioni con la camicia e la cravatta a fiocco».

Quindi ha senso essere anarchici nel 2018. «Certo, non hai mica davanti un imbecille, un deficiente. Certo potrei sembrarlo, non sono di attualità. Ma bada bene. Non parlo di quei quattro cretini che imbrattano i muri con No borders, no prison. Un anarchico non sporca».

«L’anarchia non è altro che Dio con qualche problema d’identità» scrive ne Il coraggio del pettirosso. «Il compimento dell’universo solidale e pacifico, colmo di bellezza e dignità potrà essere realizzato solo dall’umanità nova. Ed è quello che pensa Dio. Nelle scritture Dio si palesa nell’ossessiva, continua, estenuante richiesta all’uomo di essere diverso da quello che è, di redimersi, farsi nuovo per poter finalmente tornare a far parte del disegno divino sull’universo. Così come lo era prima di essere uomo, un’animale tra gli animali nel paradiso terrestre».

Nei suoi scritti leggo della figura di Dio, dell’amore di Dio per l’uomo. «Questo mi sorprende. Certo ognuno si legge il suo romanzo. Ma c’è nei miei romanzi, perché c’è nella mia vita, dedizione al sacro. Ma il sacro non è Dio. Penso alla sacralità del gesto di mia nonna che quando ero bambino stava china sul focolare, in ginocchio pescava dal marmittone con la rama i ravioli (quelli nostri, pieni di cose buone come erbe, uova, mortadella conditi con il sugo più buono di tutti quello con i funghi chiodini che si raccolgono sui pioppi) per scodellarli nella coffa e portarli come un sacerdote a tavola, portare ciò che dà la vita, il cibo, il nutrimento. Il sacro, il trascendente. Perché sono figlio di una cultura anarchica e contadina. Il contadino, la prima cosa che vede quando esce di casa è Dio, perché è tutta roba più grande di lui. Poi se grandina Dio è tutti gli animali terrestri, se invece c’è il sole è meraviglia e stupore».

Provo affetto e gratitudine per una persona che mi sta facendo dono della sua conoscenza, che sta condividendo qualcosa con me, qualcosa che permetterà a me di fare un altro passo, in avanti, accompagnato dalla sua voce, dalle sue parole.

A proposito, la parola. Gli cito un suo racconto Nel principio (è disponibile gratis online sul suo sito). La parola è qualità divina. Non se lo ricorda, glielo leggo… gli piace. Ma la parola è salvezza o dannazione? «E chi cazzo lo sa… però adesso sono fissato con l’idea di fare il guardiano di parole. Almeno delle parole che ritengo più importanti, quelle che mi sono più care e che sono sputtanate, svillaneggiate, pervertite. Pace, è sulla bocca dei peggiori guerrafondai del pianeta. Amore. Non diciamo cazzate. Quanti danni fatti usando quella parola perché non si sapeva che altro dire? Le fisso su un supporto e le espongo per quello che per me valgono. Come un contadino che continua a coltivare il formentone su 8 file mentre attorno tutti lo coltivano su 16. Non salverò il mondo, non vedrò l’anarchia. Però se leggi le cose che scrivo troverai parole usate con la massima cura possibile».

Mi colpisce come il racconto ne Il coraggio del pettirosso si concluda con una narrazione orale collettiva.

«I ricordi più belli che ho dell’infanzia sono ricordi notturni, quando finito di cenare attorno al tavolo in 10/12 qualcuno cominciava a raccontare. Mi addormentavo con questi racconti che diventavano meravigliosi, diventavano sogni. Mi ostino a far contenere ad un supporto povero come la pagina, alla monodimensione dell’inchiostro, la straordinaria tridimensionalità, la coloritura, lo spessore, la varietà del racconto orale che è fatto di toni, di timbri, di colori, di ritmi, di sguardi, di gesti».

Parole, gesti, anarchia. Non posso trattenermi e gli chiedo del ’68. «Una sollevazione generazionale globale. Nella generazione dei nostri padri il 95% andava a lavorare a 12 anni. La mia è la prima generazione della storia in cui il 90% ha potuto studiare. Sono arrivato a 18 anni fresco, riposato, fancazzista. Avevamo una quantità enorme di energia, non quella di chi si ribella per la fame materiale, l’energia di chi si ribella per la fame spirituale, culturale. Un lusso straordinario. Gli esiti di questa sollevazione? Siccome non abbiamo fatto un cazzo fino a 18 anni tanto valeva arrivare belli freschi anche a 60 anni. E siamo rimasti una generazione di adolescenti. Che pensano di essere immortali e che hanno fatto in modo che i propri figli non crescessero per non farsi rubare il posto di adolescenti. Ecco che voi siete una generazione di castrati globali dai propri genitori. È poi una vecchia storia. Il mito di Kronos».

«Giovane. Io devo preparare la cena. Devo salutarti».

Per un attimo ho temuto di essere io la cena. Invece finiamo a parlare di serie TV, ne guarda tantissime, «vorrei farne una perché è il romanzo del 21° secolo. Delle italiane salva solo Boris: «mi fa pisciare addosso dal ridere, non ho visto apposta l’ultima stagione perché la voglio vedere quando sarò in punto di morte, per tirarmi su».

Rientra in casa canticchiando In un mondo che/non ci vuole più… Questo sì che è un inno anarchico! Lui è un vero anarchico, un signore. Pratica quello che non predica, vive e cerca di mettere nero su bianco le parole importanti perché altri ne possano giovare. Signore anche quando pesto qualche merda e lui con estrema gentilezza non me lo fa pesare.

Lo seguo nel suo studio, che chiama laboratorio. Lungo il percorso libri ovunque e i vecchi Mac. Gli chiedo un selfie dopotutto lei è un autore pluripremiato… sta per mandarmi a cagare, allora aggiungo rapidamente. Scherzavo!