GHEMON, PIÙ LA PENNA CHE LA SPADA

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Quante volte ho cambiato pelle? Non si contano. Non amo ripetere le stesse formule, vedo le cose in continua evoluzione». È un cantiere aperto e in divenire, Giovanni Luca Picariello, in arte Ghemon, 36enne rapper di Avellino che si fa le ossa nella scena musicale indipendente fra la fine degli anni Novanta e la metà degli anni Duemila, prima militando in vari collettivi e poi come solista, quando il suo sound prende una piega più melodica, complice anche una voce che tocca le corde del soul. Non a caso, i suoi riferimenti musicali – come ha ribadito più volte – sono artisti come Stevie Wonder o Frank Ocean. Oggi definirlo semplicemente rapper sarebbe riduttivo. Ghemon è un cantautore, prima di tutto, che esplora i territori del pop, del funk e dell’hip hop. I suoi pezzi, sempre profondi ed estremamente curati dal punto di vista lessicale, non dimenticano l’aspetto della critica alla società e ai luoghi comuni, senza mai cadere, però, in quelle forme di autocelebrazione e autoreferenzialità tipiche di una certa scena rap. Il segreto? Portare tutto se stesso dentro ad ogni lavoro: nella musica, così come nella scrittura, nuova disciplina che lo vede sotto i riflettori. Io sono. Diario anticonformista di tutte le volte che ho cambiato pelle è infatti il suo primo libro, fresco di uscita per la casa editrice HarperCollins. Ce ne ha parlato in occasione della tappa cesenate del tour promozionale di Mezzanotte, la sua quinta e ultima fatica in studio. Il 31 marzo scorso l’artista irpino è tornato insieme alla sua band sul palco del Vidia Club, dove aveva già suonato nel 2012 con un progetto a sei mani, che lo vedeva ai tempi dividere la scena col rapper Bassi Maestro e il beatmaker canadese Marco Polo.

Sale volentieri sul un palco romagnolo? «Assolutamente sì! Nell’ultimo periodo ho avuto occasioni speciali di suonare nelle vostre zone. Prima il Capodanno a Riccione, poi il ritorno al Vidia Club. Non vedevo l’ora di ritrovare il pubblico cesenate: sei anni dall’ultimo concerto hanno creato la giusta attesa».

Com’è il rapporto con i suoi fan, oggi? «Nella prima parte della tournée abbiamo toccato le grandi città e ogni live ci ha dato grandi soddisfazioni. In questa seconda parte del tour (che lo vede impegnato fino a fine aprile, ma le date sono in continuo aggiornamento, ndr) stiamo andando a esplorare anche la ‘provincia’: il pubblico è diverso, ma il riscontro generale è sempre positivo. Complice forse l’uscita del libro, grazie al quale i fan, ora mi conoscono un po’ di più anche dal punto di vista umano».

Quando ha deciso di cimentarsi anche con la scrittura? «In realtà è una passione che coltivo da sempre e l’idea, un giorno, di scrivere un libro non era poi così lontana. Diciamo che è stata una coincidenza fortunata: la proposta dell’editore, arrivata in un momento in cui non ero sotto ai riflettori. E poi l’uscita del libro, in una fase, al contrario, molto intensa della mia carriera».

Che genesi ha avuto Mezzanotte , il suo ultimo disco? «Esce a distanza di tre anni da Orchidea, un album che ha avuto una vita artistica molto lunga, con un tour durato due anni e mezzo. Questa lunga carovana di concerti è stata una sorta di laboratorio, dove ho potuto raccogliere idee e sperimentare cose che poi hanno preso forma quando io e i miei musicisti ci siamo chiusi in studio».

Possiamo dire che è un disco dove si è messo a nudo, forse più di altri lavori? «Nell’album, così come nel libro, non ho fatto altro che mettere dentro me stesso. Non mi sono trattenuto, ho tirato fuori anche le cose più difficili, dure, a tratti sconvenienti (Mezzanotte è un album in cui si parla di rabbia, disagio, depressione, della fine di una relazione, ndr). È un lavoro sincero, che ho usato come strumento di auto terapia. E dai riscontri che sto avendo, posso dire che i fan lo hanno capito e si sono rivisti in certe sensazioni e stati d’animo».

«Qual è il farmaco che lenisce le ferite nuove?» , si chiede in un brano del disco. È la musica, quindi? «La musica è sempre il farmaco. Lo è in fase di costruzione di un disco, ma lo è anche ai concerti. Quando ti trovi di fronte a un pubblico che grida e si sfoga per qualcosa, e tu fai lo stesso urlando al microfono i tuoi versi: è in quel momento che due negativi si incontrano e generano un positivo. Un’energia unica».

Un artista o una band che apprezza particolarmente, nella scena musicale attuale? «Mi piacciono molto i Selton, Diodato e Roy Paci, che sostengo al cento percento (ha duettato con loro a Sanremo, quest’anno, durante la serata dedicata agli special guest, ndr), e recentemente ho apprezzato molto un concerto in teatro di Levante. In generale , credo sia un momento felice per la musica italiana, c’è un bel fermento».

Una curiosità: come vede il ‘fenomeno’ Måneskin, che con la cover del suo brano Un temporale ha spopolato prima a X Factor e ora in tour? «Li guardo con curiosità, devo ammettere che ci ho trovato fin da subito qualcosa di particolare, che potrebbe funzionare. X Factor è stato una grande cassa di risonanza, anche per il mio pezzo. La cifra artistica, invece, è qualcosa che si misura alla distanza: loro, essendo giovanissimi, hanno anche il tempo dalla loro parte».

Se un giorno le proponessero di fare il giudice a X Factor, cosa risponderebbe? «Fino a qualche tempo fa sarebbe stato un ‘no’ categorico, non perché io abbia qualcosa contro il programma, ma per il format in sé: la gara, in ambito musicale, è qualcosa con cui non ho e non voglio avere nulla a che fare. Ultimamente, però, ho avuto occasione di guardare la cosa da un altro punto di vista».

Ovvero? «Se prendere parte a X Factor fosse l’occasione per portare dentro al programma un certo tipo di sensibilità musicale, per creare qualcosa di diverso dal punto di vista artistico, allora forse sarebbe un’opportunità interessante. Credo che un giudice, in un contesto come quello di un talent, debba seguire il percorso dei giovani in gara avendo l’opportunità di dire la propria, senza vincoli. Se ci fossero davvero queste condizioni, chissà, forse potrei prendere in considerazione la cosa».