Coincidenze bolognesi. Lapsus Urbano di Kepler 452 e DNA per perAspera Festival

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Kepler 452, Lapsus Urbano

 

In una medesima giornata di settembre il capoluogo emiliano, e i suoi dintorni, hanno offerto due esperienze artistiche totalmente autonome l’una dall’altra ma, al contempo, sorprendentemente affini per presupposti teorici e articolazione linguistica. Alcune note, con un piccolo incoraggiamento finale.

Il verbo coincidere, spiega il vocabolario, viene dal latino medievale derivato di incidĕre, “avvenire, cadere dentro”, con l’aggiunta del prefisso co-, che ne indica la simultaneità.

Un martedì di metà settembre Bologna ha fornito, del tutto fortuitamente, la possibilità di “cadere dentro” a due esperienze estetiche che, seppur completamente autonome l’una dall’altra, hanno evidenziato alcuni fondanti punti di contatto, soprattutto per quanto concerne i presupposti teorici e l’articolazione dei segni messi in campo: Lapsus Urbano a cura di Kepler 452 e lo spettacolo di danza La pancia della balena della compagnia DNA, incontrato nell’ambito dell’undicesima edizione di perAspera Festival.

La prima è un’azione durante la quale un gruppo di spettatori viene condotto, per mezzo di audioguide, in un percorso a piedi attraverso la zona universitaria attigua a Via Zamboni. Si parte dai suggestivi Giardini pensili del Guasto, un fazzoletto di piante e cemento edificato sopra a cumuli di detriti e, in un percorso della durata di circa 100 minuti che attraversa portici e piazzette, case private e salette studio dell’Università, il Museo di Palazzo Poggi e il Teatro delle Moline, si giunge sulla terrazza posta in cima al Teatro Comunale, con affaccio sulla brulicante Piazza Verdi.

 

DNA, La pancia della balena

 

Il secondo è un itinerario coreografico che prende le mosse, è proprio il caso di dire, da una serie di concretissimi appoggi tra i corpi dei due danzatori (come non pensare alla misteriosa oggettività del butoh?), dal loro certificare la reciproca consistenza volumetrica attraverso i palmi delle mani, le braccia, l’addome (come non tornare al progetto Verifica di esistenza di Franco Vaccari, che in piena Neoavanguardia anni Settanta pose, di concerto con altri suoi luminosi colleghi, una fonda questione sul rapporto -sempre dialettico- fra presentazione e rappresentazione?). Lo spettacolo, vale sottolinearlo, è andato in scena a Bentivoglio, a pochi chilometri da Bologna, in una sala al piano nobile di una residenza signorile di campagna di fine Settecento, nell’ambito dell’undicesima edizione di perAspera, Festival che intende esplicitamente mettere al centro della propria azione culturale «la relazione tra luogo, artista e persone».

Ecco la prima coincidenza.

Vengono in mente le celeberrime valigette di Fluxus: opere come attivatori di sensazioni inaspettate, intese come esperienze propriamente estetiche (termine da leggersi come opposto di anestetiche, non di inestetiche). Proposte che fanno del ready made (un muro sbrecciato in un caso, il corpo nella sua datità nell’altro) l’origine e la destinazione del gesto artistico o, detto più precisamente, dello sguardo che esso propone.

 

Ay-O, Finger box, 1964

 

A tal proposito: uno dei crucci di chi si occupa di restituire attraverso la scrittura esperienze di visione di spettacoli dal vivo (o meglio di teatro: luogo dello sguardo, luogo della visione) è quanto l’io che guarda debba entrare nel racconto.

Nel caso del “dittico” bolognese è forse legittima la prospettiva che nell’ambiente del cinema viene definita «semisoggettiva»: un’inquadratura unica che ingloba nello stesso campo visivo sia l’oggetto visto sia il soggetto vedente. Oggetto e soggetto: parti eguali dentro un unico sguardo.

Ciò pare appropriato per esperienze che possono forse essere considerate una vera e propria interrogazione all’occhio dello spettatore. Che inducono, per dirla con Maurice Merleau-Ponty, a «guardarsi guardare»: un invito ad accorgersi di come incontriamo il mondo mediante il parziale e privilegiato osservatorio costituito dalle sue (rap)presentazioni sceniche.

Qualcosa che non sembra del tutto improprio definire Terzo paesaggio del teatro.

Come è noto Gilles Clément (1943), docente presso l’École Nationale Supérieure du Paysage di Versailles e scrittore, nel suo celebre Manifesto con l’espressione «Terzo paesaggio» indica tutti i «luoghi abbandonati dall’uomo»: le grandi aree disabitate del pianeta ma anche gli spazi più piccoli e diffusi, quasi invisibili (le aree industriali dismesse dove crescono rovi e sterpaglie; le erbacce al centro di un’aiuola spartitraffico…). Sono diversi per forma, dimensione e statuto, accomunati solo dall’assenza di ogni attività umana, fondamentali per la conservazione della diversità biologica. Luoghi che “semplicente”, senza aggettivi, sono.

 

Kepler 452, Lapsus Urbano

 

Questo pare essere il punto di partenza sia della proposta di Kepler 452 che di DNA, nelle quali il pubblico è esplicitamente incoraggiato a porre come oggetto del proprio sguardo il luogo-giardino quale è, in un caso, e il luogo-corpo, sineddoche di ogni discorso sul mondo, nell’altro: qui e ora autosignificante, dato puramente organico, bios che vale in quanto tale.

Le due proposizioni artistiche, dopo la fenomenologica fiducia con cui si aprono, prendono però tutt’altra strada.

Nel primo caso un “molto pieno” di dramma, dunque azione, intride le istruzioni impartite dalla voce in cuffia che, in un intreccio di antropologia e urbanistica, politica e sociologia, ha un tono e un ritmo che ben poco spazio lasciano al mondo quale è, con i suoi mille stimoli ed i suoi salvifici vuoti. L’effetto, amplificato dalla colonna sonora, è una sorta di realtà aumentata. Come se quella che si ha davanti agli occhi non fosse sufficiente.

Nel secondo caso, la coreografia articola reiterate cadute a terra e sincroni a tratti un po’ imprecisi in un dinamicissimo, ansimante contact che sceglie la strada dell’espressione, o meglio del simbolo.

Questo termine, nell’etimo latino, è accostamento, derivato dal greco mettere insieme, far coincidere: nell’uso degli antichi Greci, era un mezzo di riconoscimento e di controllo costituito da ognuna delle due parti ottenute spezzando irregolarmente in due un oggetto, per esempio un pezzo di legno. I discendenti di famiglie diverse lo conservavano come segno di reciproca amicizia.

 

DNA, La pancia della balena

 

A quale parte assente si rimanda, qui?

Cosa manca?

Il mondo per come si manifesta (muri, appoggi, consistenze e tutto il resto) da un lato, i corpi quali sono (peso, ossa, muscoli e tutto il resto) dall’altro, non sarebbero forse in sé bastanti?

«Una cosa è contenta d’essere guardata dalle altre cose solo quando è convinta di significare sé stessa e nient’altro, in mezzo alle cose che significano sé stesse e nient’altro», incoraggia Italo Calvino, uomo saggio.

 

MICHELE PASCARELLA

 

Visti il 18 settembre 2018 – info: kepler452.it, perasperafestival.org, dnamove.com