«Unire cibo, vino e dialogo alla maniera degli antichi». Conversazione con Claudio Angelini

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foto di Elisa Nicosanti (Città di Ebla)

 

Il fondatore dell’ensemble forlivese Città di Ebla riflette sul progetto Simposi in Cantina.

Partirei dal vostro sito web. Vi trovo questa presentazione: «Dopo il fortunato ciclo di simposi del 2017 dedicati al “patrimonio”, Città di Ebla e La Cantina di Via Firenze tornano nel 2018 per proporre una nuova serie di appuntamenti. Ci si incontra per dialogare attorno alla figura del padre – o dei padri – nella più vasta accezione del termine (guidati dall’edizione di Ipercorpo 2018), alternando al confronto verbale il piacere della tavola in orario prandiale. La Cantina di via Firenze è fin dalle origini di Ipercorpo un luogo di elezione, le prime edizioni si svolgevano in aperta campagna, a Rovere, non distanti dalla cantina. Quest’anno i nostri ospiti saranno Walter Siti (scrittore e saggista), Stefano Velotti (filosofo), Flavio Favelli (artista), Giusepppe Gobbi (neuropsichiatra infantile). Gli incontri saranno introdotti e moderati da Davide Ferri e Claudio Angelini». Oltre al dato informativo, forse utile ad inquadrare il progetto a favore del lettore che non ne fosse a conoscenza, vorrei sottolineare la collocazione di questa pagina: nella sezione opera. Quali occorrenze e quali bisogni hanno portato un soggetto artistico, che nasce anche e soprattutto come creatore di spettacoli, ad immaginare e realizzare questi Simposi?

La riflessione sul senso del nostro fare artistico è stata  molto approfondita e frequente sin dalla nascita di Città di Ebla. Ad un certo punto, quasi subito in realtà, abbiamo sentito l’esigenza di allargare il confronto a soggetti non prettamente teatrali ma legati ad altre discipline, come l’arte contemporanea, la musica, la fotografia, l’architettura, la fisica sperimentale, l’archeologia. Per la verità siamo sempre stati abbastanza distanti dal dibattito teatrale in senso stretto, dalla convegnistica di settore, dalla celebrazione che il teatro fa, come tutti i luoghi di potere, dei suoi sacerdoti. La retorica interna al teatro non ci ha mai interessato. Nello stesso tempo il dialogo e la scoperta più approfondita di discipline limitrofe al teatro, e in grado di essere accolte dalla grande casa del teatro per sua stessa natura, ci ha sempre appassionato, oltre a un certo piacere di parlare a tavola con discreto scorrere di vino. I simposi per Città di Ebla sono emersi ancora prima che decidessimo, nel 2006, di chiamarli così. Una volta accettata questa forma di studio e approfondimento, iniziata in modo libero, abbiamo scelto un luogo di elezione, una casina in appennino gestita da una coppia svizzero-romagnola, che faceva servizio cucina fino a tarda ora per pochi commensali. Per anni è stato il nostro “buen retiro”. I simposi sono nati così. Le conversazioni non venivano nemmeno registrate, come avviene dal 2017 in cantina di via Firenze, a turno ciascuno di noi prendeva appunti in un quaderno che ancora conserviamo.

Può la realtà (anche quella peculiare di un incontro fra umani attorno a simposiarchi di spessore, buon cibo e ottimo vino) essere sufficiente come opera (pensiamo ai dodici cavalli portati alla Galleria L’Attico di Roma da Kounellis nel 1969), o perché possa avvalersi di tale qualifica va aumentata/abbellita/migliorata/intensificata (appunto, e ad esempio, con simposiarchi di spessore, buon cibo e ottimo vino)? Secondo te il percorrere l’una o l’altra via, in mettere o in levare, è solo questione di gusti? Di stili? Credi esista un’oggettività, nell’ambito delle proposizioni culturali, o il relativismo impera?

Non credo a nessuna oggettività che riguardi una proposizione culturale. Oggi con i simposi in cantina noi facciamo una cosa semplice: ci prendiamo tempo per declinare ulteriormente il tema che abbiamo scelto per il festival. Una volta Ipercorpo era attraversato da incontri e momenti di approfondimento. Poi la sua struttura è cambiata con l’introduzione della piattaforma internazionale. Lo spazio per gli incontri si è ridotto e abbiamo deciso di collocarlo diversamente in maniera autonoma. È un tempo disteso di un rapporto con il pensiero che all’interno del festival non era più possibile. Si percepiva una compressione inaccettabile e alla fine uno scadimento della qualità dello scambio. D’altra parte sentivamo anche l’esigenza di portare a un gruppo più aperto l’esperienza privata dei simposi delle nostre origini. La trasformazione del tuo lavoro, nel tempo, che avviene  per le scelte che compi e al contempo per tutto ciò che prescinde dalla tua scelta, dal contesto, ti informa essa stessa su quali siano i modi più corretti del procedere. Ciò che non è mai mancato nelle situazioni che ho descritto era la presenza di un ospite principale, qualcuno eletto a presiedere l’incontro, un simposiarca appunto. Qualcuno che non abbiamo mai chiamato relatore, al di là della sapienza che ha sempre portato in dono.

 

foto di Elisa Nicosanti (Città di Ebla)

 

In base a quali principi e occasioni avete individuato gli ospiti da invitare in qualità di simposiarchi e quale tipo di “richiesta” avete fatto loro, giacché il progetto non si configura in alcun modo come un ciclo di lezioni accademiche né di pratiche univocamente o esplicitamente dirette all’acculturamento dei presenti?

Nella fase, potremmo dire “esoterica” dei nostri simposi ciascuno di noi periodicamente proponeva un invitato e lo sollecitava con una o più domande che gli venivano fornite in anticipo. Questi inviti potevano avere degli aspetti biografici come ad esempio l’invito a Giovanni Lindo Ferretti fatto dal nostro musicista Davide Fabbri, che con Giovanni aveva lavorato in bottega come allievo della sua scuola. Oppure per conoscere meglio il lavoro di un artista come Robert Gober invitammo Davide Ferri, che oggi stabilmente cura la parte di arte contemporanea del festival Ipercorpo. Giunta la fase “essoterica”, cioè cominciati gli incontri nel 2017 in cantina, abbiamo sentito la necessità di allargare la riflessione rispetto al tema del festival. L’anno scorso era il patrimonio, quest’anno il padre. La scelta dei simposiarchi nasce da ciò che ci accade nel corso della preparazione del festival, studi, incontri, approfondimenti, e tutti gli invitati vengono chiamati a declinare a loro modo lo stesso tema.

Per ciò che hai potuto percepire, dal punto di vista del pubblico quale rapporto fra esperienza e cultura è alla base di questa fruizione?

La cultura è anche  esperienza,  l’esperienza è anche cultura. Posso dire che dopo otto appuntamenti fra il 2017 e il 2018 si è creato un piccolo gruppo di affezionati che hanno partecipato a quasi tutti gli incontri, altri vengono in maniera intermittente, altri ancora scelgono con precisione il simposiarca che a loro interessa. In ogni caso non esiste un gruppo di persone fisso, che non possiamo definire pubblico perché gli astanti sono invitati a dialogare  con il simposiarca e fra di loro. Questo, sovente, succede. Un gruppo di persone si ricostruisce ogni volta, esattamente come accade a teatro. Sono micro comunità istantanee, si congiungono per quelle poche ore, a volte anche in modo abbastanza intimo visto il luogo, per poi disperdersi nuovamente. Non c’è un gruppo di eletti e anche le estrazioni sociali sono molto diverse, dunque ciascuno arriva con il suo personale bagaglio di esperienza/cultura. Alla base di questa fruizione credo ci sia la totale libertà della forma di quel bagaglio. Insomma mi piacerebbe che nel tempo i simposi in cantina di Città di Ebla venissero percepiti come luoghi davvero aperti. E questo non dipende dal numero di persone ma dalla condizione dello stare.

Ancora, rispetto ai partecipanti: quale terreno comune si abita, quali premesse si condividono, in questi Simposi?

Si abita un terreno costruito su un tripode. Il simposiarca che invitiamo insieme a coloro che con noi lo accolgono. Il luogo che ci ospita, la Cantina di via Firenze dei fratelli Filippo e Gianmarco Dispoto, che per noi è luogo di elezione fin dalla nostra fondazione dal momento che si trova sulla strada che da Forlì ci portava a Rovere, la nostra prima sede. Inoltre ci ricorda il calore con cui venivamo accolti in Appennino nei nostri primi simposi privati. E da ultimo, un vino, Poderi dal Nespoli, elemento necessario affinché il simposio possa aver luogo, e che per noi non può essere sostituito perché rappresenta un compagno di strada che ci segue e ci sostiene nel lavoro fin dalla nostra nascita. Questi tre elementi formano i simposi in cantina. Questo insieme, e non un altro,  diventa geografia di quel terreno comune che si abita.

 

foto di Elisa Nicosanti (Città di Ebla)

 

Puoi individuare alcune precise sorprese che gli ospiti di questa edizione hanno portato, in relazione al tema proposto?

Non riuscirei a parlare di sorprese. Forse la cosa sorprendente può essere quella di scoprire che continuano a esserci validi motivi perché persone vogliano incontrarsi fisicamente per unire cibo, vino e dialogo alla maniera degli antichi. Dialogo che, per sua natura, presuppone l’ascolto e il silenzio, oltre che la parola. Attraverso il mangiare e il bere. Non mi sembra poco, in un’epoca fatta  di sciami di parole o nuove forme di silenzio da “spettatore/suddito”, o ancora di spettacolarizzazione del pasto a fini turistici o puramente commerciali.

Concludo con un azzardo. Mi pare che questa proposizione (elaborata da soggetti che in  senso ampio finché si vuole, comunque si occupano di arte) possa problematizzare la nozione di distanza estetica, mettendo in crisi la trita equivalenza distanza = atteggiamento critico (ovvero autonomia dalle manipolazioni, consapevolezza) e mancanza di distanza = atteggiamento acritico (ovvero subalternità alle manipolazioni). La modalità sinestetica di fruizione del fatto culturale da voi riproposta (che ha origini tanto nelle fondamenta della nostra cultura occidentale quanto nel mondo asiatico, nel quale l’esperienza estetica è tutt’altro che disincarnata e l’arte è sovente intesa come occasione di assaporare emozioni, di gustarle come fossero cibo, o insieme ad esso) potrebbe preludere a una nuova direzione (rasica, direbbe Richard Schechner) nella produzione scenica di Città di Ebla?

Non saprei, Michele. Ti posso dire che ho raccolto molti appunti e pensieri riguardanti una produzione artistica che potesse affiancare il corpo-cibo al corpo umano. Sul corpo umano fra il 2006 e il 2012 ho lavorato certamente, sul cibo ancora no, nei termini di uno spettacolo. Sebbene non sia escluso non è comunque imminente.  Per ragioni molteplici la produzione artistica di Città di Ebla  da qualche anno si è fermata, ci siamo concentrati su progettazioni che potrei definire tangenti all’arte scenica, co-produzioni e attenzione ad artisti più giovani anche attraverso Ipercorpo. E questo sarà certamente ciò che continueremo a fare anche nel futuro più prossimo. I simposi resteranno nel nostro orizzonte di senso. Magari continueremo  a ritoccarne il formato, come sempre in parte guidati da scelte precise, in altra parte cercando di interpretare il contesto. Che cosa faccio io delle condizioni, che cosa fanno le condizioni di me.

 

MICHELE PASCARELLA

 

info: cittadiebla.com