Opera di Pechino al Teatro Bonci. Alcune domande

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In concomitanza con il Capodanno cinese, va in scena in prima nazionale lo spettacolo La leggenda del serpente bianco della mitologica Compagnia Nazionale. Noi, ieri sera, c’eravamo. Chi può questa sera vada (se trova i biglietti): per iniziare l’anno nuovo con qualche salutare dubbio.

Un pezzo di Storia arriva in Romagna (prima nazionale e uniche date in Italia) nell’ambito di una composita collaborazione fra ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione e Compagnia Nazionale dell’Opera di Pechino. Con il salutare effetto, tra gli altri, di porre qualche fonda questione allo sguardo dello spettatore.

Innanzi tutto: di cosa stiamo parlando?

L’Opera di Pechino è una forma teatrale sviluppatasi a partire dal tardo XVIII secolo. Intreccia recitazione, pantomima, musica, canto e danza. È tra le forme di rappresentazione teatrale orientale più conosciute al mondo per la ricchezza dei costumi, l’essenzialità dell’apporto scenografico e la particolare e difficile esecuzione dei performer, cosa che richiede agli attori un duro lavoro di preparazione.

La leggenda del serpente biancomette in scena un antico testo della cultura cinese, tra i più celebri della tradizione orale. «L’opera» si legge nel comunicato stampa «descrive l’incontro tra Lady White, un’incantevole donna sotto le cui sembianze si nasconde lo spirito del Serpente Bianco, e Xu Xian, un giovane uomo. I due si innamorano e subito si sposano. Il monaco Fahai, però, invidioso del loro amore e convinto che un essere umano non possa innamorarsi di uno spirito, escogita numerose trovate per metterli alla prova e ostacolarli, col fermo intento di porre fine alla loro unione. In conclusione, Lady White confesserà la verità a Xu Xian ed entrambi riusciranno a esprimere i loro sentimenti più autentici, rafforzando il loro legame e trovando un modo per restare insieme malgrado le difficoltà».

Al di là della vicenda raccontata e senza addentrarci in dettagliate analisi tecniche sulla composizione ed esecuzione dello spettacolo (probabilmente poco interessanti per il lettore), pare opportuno, in questa sede, accennare a un tema che, consapevolmente o meno, coinvolge tutti: la ricezione di fenomeni culturali profondamente diversi e lontani o, detto altrimenti e più in generale, l’incontro con ciò che è altro da sé.

Per circoscrivere un tema così smisurato al fatto teatrale oggetto di queste righe, è forse utile partire dalle note del direttore di ERT Claudio Longhi riportate nel suddetto comunicato: «L’arte dell’Opera di Pechino ha sedotto più e più volte i maestri della scena occidentale, per via delle sue algide e stranianti geometrie, capaci di intrecciare in un equilibrio formidabile musica, coreografia, recitazione e visione, creando quasi un secolo prima una via asiatica all’intuizione wagneriana dell’opera d’arte totale. È una combinazione sapiente di elementi sonori e visionari, generati dalla stupefacente abilità e disciplina dei suoi artisti, siano essi attori o musicisti. Un linguaggio e uno stile altri rispetto a quelli occidentali, ma che ci incantano ancora per quell’assoluto rigore in grado di generare meraviglie su meraviglie, stimolando il nostro immaginario e costringendolo a intraprendere sfide nuove. Leggenda vuole, d’altronde, che lo stesso Bertolt Brecht abbia intuito la sua rivoluzionaria idea di un teatro epico fondato sullo straniamento quando una sera si imbatté a Mosca in una breve dimostrazione di Mei Lanfang, approntata lì sul momento, con il grande interprete -destinato nel 1955 a presiedere la neonata Compagnia Nazionale- a regalare un frammento della sua arte ancorché vestito in frac».

Ora.

Numerose testimonianze iconografiche risalenti almeno a fine Settecento (epoca in cui nacque l’Opera di Pechino, appunto) riprendono la scena dell’arrivo in una pubblica piazza di una troupe di attori, circondata da gente che la guarda e la addita. Si può forse dire che gli ingredienti essenziali della relazione teatrale siano già lì: fascinazione dell’alterità, desiderio di incontrare l’altro, l’attore, lo «straniero che danza».

Bisogna ammetterlo chiaramente: non è facile sovrapporre questa immagine archetipica con la prassi di esperienza artistica come «specchio della realtà»: riconoscimento dello stesso e del già noto, riconferma dell’identità personale e collettiva. È forse questo umanissimo meccanismo, e non solo la concomitanza con il loro Capodanno, che ieri sera ha spinto decine e decine di donne e uomini cinesi ad affollare (fatto del tutto eccezionale) la platea del Bonci?

Vale per l’esperienza teatrale ciò che già nel 1952 Cesare Pavese scriveva ne Il mestiere di vivere: «Leggendo non cerchiamo idee nuove, ma pensieri già da noi pensati, che acquistano sulla pagina un suggello di conferma. Ci colpiscono degli altri le parole che risuonano in una zona già nostra – che già viviamo – e facendola vibrare ci permettono di cogliere nuovi spunti dentro di noi»?

Detto altrimenti: vogliamo sentirci raccontare sempre e solo la stessa storia, farci dire ciò che già sappiamo, incontrare ciò che già abbiamo incontrato?

È per questo motivo che nello stratificato, misterioso spettacolo presentato dalla Compagnia Nazionale dell’Opera di Pechino i passaggi che hanno riscosso maggiori plateali apprezzamenti sono quelli più facilmente riconducibili a una nostra idea di bello, di arte e di artista (sincroni, acrobazie “circensi”, assoli virtuosistici che rispondono a una concezione d’origine greca di artista come detentore di perizia, di téchne)?

E, come critici, provare istintivamente a leggere il sistema di segni proposto secondo le consuete categorie storico-interpretative (ballet d’action, recitar cantando, uso “rinascimentale” della scenografia, …)?

È corretto definire questa dinamica “normalizzazione”?

Se sì: è inevitabile o ci si potrebbe lavorare, magari attraverso il teatro?

Sarebbe forse necessario mettere seriamente a frutto la lezione dei Maestri novecenteschi: al di là delle differenze che ovviamente li separano, hanno inseguito tutti un modello di teatro che potrebbe essere definito (alla maniera di Artaud) «doppio della cultura», un teatro concepito come vero viaggio verso/nell’altro, cioè come scoperta dell’alterità a partire dalla propria, quell’«alterità intima o essenziale» di cui parla Marc Augé e che concerne le differenze di cultura interne alla persona.

Spaesarsi: di questo ci sarebbe forse bisogno.

Grazie alla magnificente macchina scenica dell’Opera di Pechino per avercelo ricordato, in questo inizio d’anno.

MICHELE PASCARELLA

PS per alcune nozioni qui utilizzate sono debitore allo storico del teatro Marco De Marinis, al suo Il teatro dell’altro. Interculturalismo e transculturalismo nella scena contemporanea.

Visto il 5 gennaio 2019 al teatro Bonci di Cesena – info su: spettacolo a Cesena, Opera di Pechino