ALICE NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE, LA CIA E IL MAGICO MONDO DELLE COOPERATIVE BRACCIANTI DI RAVENNA

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Alice nel Paese delle Meraviglie, così veniva chiamata dai romagnoli delle campagne l’antropologa americana Alison Sanchez Hall durante la sua prima visita a Ravenna all’inizio degli anni ’70. Il nomignolo veniva da un misto tra l’incredulità di essere studiati nientemeno che da un’antropologa statunitense e dall’orgoglio di sapere che, in effetti, avevano molto da insegnarle sul tema della cooperazione.

Il libro All or none – Cooperation and sustainability in Italy’s Red Belt (Tutti o nessuno – Cooperazione e sostenibilità nell’Italia rossa, ndr), frutto di 40 anni di studi sulle Cooperative Agricole Braccianti di Ravenna, è uscito recentemente, edito da Berghan Books di New York. È il primo studio sociologico e antropologico in lingua inglese su quella che è considerata una delle più importanti esperienze di agricoltura collettiva al mondo. Dall’11 al 15 febbraio Alison è tornata a Ravenna e a Bologna per presentare la sua ricerca agli studenti del Master in Economia della Cooperazione.

Perché un libro sul modello cooperativo romagnolo? «All’inizio degli anni ’70, il mio professore di Antropologia all’Università della California a Santa Barbara stava facendo delle ricerche per un libro sulle società utopistiche e, avendo sentito parlare di Ravenna, mi suggerì l’argomento poiché allora non c’era niente di scritto in inglese».

Cosa si aspettava quando è venuta in Italia per la prima volta nel 1972 e cosa ha trovato? «Il mio professore mi aveva detto che mi sarei dovuta aspettare il fallimento delle cooperative. Più tardi ho scoperto che aveva lavorato per il governo degli Stati Uniti in America Latina per impedire le rivoluzioni contadine. Su Ravenna Notizie qualcuno si è ricordato della mia prima visita in Italia, dicendo che allora alcuni pensavano che il mio lavoro sarebbe finito nelle mani della CIA. Ho risposto che probabilmente avrebbero avuto ragione se non avessi fatto arrabbiare il professore al mio ritorno, raccontandogli quanto fossero forti le cooperative di Ravenna e le cose meravigliose che stavano facendo per i lavoratori».

Nella sua seconda visita a Ravenna nel 2010, cosa era cambiato rispetto al 1972? «Nel 2010 scoprii con piacere che le cooperative avevano adempiuto alla loro storica missione di creare lavoro per cinque generazioni e che i figli e i nipoti dei membri delle cooperative vivevano ancora nelle stesse città rurali che avevo visitato. Ma negli anni ’70 nessuno avrebbe pensato che i braccianti come classe sociale sarebbero scomparsi come di fatto è successo. Una cosa che non era cambiata erano le biciclette, che mi sembravano le stesse di 40 anni prima».

Cosa la sorprese maggiormente dell’Italia? «Direi il calore della gente, la vicinanza tra i membri delle famiglie e i sentimenti che gli uomini esprimevano nei confronti dei bambini».

Gli agricoltori di Ravenna possono davvero insegnare qualcosa agli americani? «Certamente. Nel mio Paese ci sono giovani agricoltori che vorrebbero acquistare terreni troppo costosi per loro per cercare di cambiare il modello di produzione agricola negli Stati Uniti, basato sull’allevamento intensivo e sulle grandi fabbriche nei campi che distruggono il terreno superficiale spruzzando pesticidi ancora prima della semina, con il risultato che il cibo è insapore e malsano. Ricordo che, quando tornai dall’Italia nel 1974, rimasi sconcertata dal fatto che gli scienziati della University of California (che lavoravano con i soldi delle nostre tasse) modificassero geneticamente i pomodori per renderli più squadrati e adatti al trasporto e per farli maturare solo al supermercato».

Nell’introduzione al libro cita Papa Francesco. Cosa accomuna le sue idee sulla società alle idee sull’organizzazione cooperativa? «Ho menzionato Papa Francesco perché ha detto che il futuro è nelle nostre mani e che possiamo organizzarci ed essere creativi inventando lavoro dove non ce n’è (come hanno fatto i braccianti di Ravenna)».

Qual è il più grande ostacolo alla cooperazione oggi? «La cospirazione delle persone più ricche del mondo che fanno il lavaggio del cervello a tutti noi. Negli Stati Uniti è uscito di recente il libro Dark Money (Soldi sporchi, ndr), di Jane Meyer, che descrive in dettaglio come alcune persone molto ricche abbiano investito nella propaganda e nel controllo del governo».

Nel suo libro cita anche il movimento Slow Food, ritenuto a volte un po’ snob. Come potrebbe essere considerato più vicino alle persone comuni? «Ho menzionato Slow Food come esempio di resistenza al fast food e come strumento dei consumatori per il cambiamento. Un tempo credevo che l’agricoltura su larga scala fosse necessaria affinché nel mondo non si morisse di fame e so che il cibo sano è troppo costoso per la stragrande maggioranza delle persone. Tuttavia, so anche che le persone che coltivano il proprio cibo non sono snob o ricche e lo coltivano con cura per non riempirlo di pesticidi. So anche che negli Stati Uniti la gente mangia troppa carne e che questo è un enorme problema ambientale. Nel mio libro non volevo uscire troppo dal seminato citando le parole di Einstein ‘Nulla favorirà la salute o la sopravvivenza sulla terra come l’evoluzione verso una dieta vegetariana’. Penso che il punto sia che la nostra cultura deve cambiare e questo, come dice anche Papa Francesco, è una nostra responsabilità».

Perché le idee socialiste e comuniste sono sempre state denigrate negli Stati Uniti? «Questa è una grande domanda che ha molte risposte parziali. Anche se dovremmo ringraziare anarchici, socialisti e comunisti per il movimento operaio negli Stati Uniti e per la giornata lavorativa di 8 ore e i fine settimana di riposo. Solo adesso i giovani cominciano ad accettare la parola socialismo. Mentre il nostro Paese si muove in direzione del fascismo, ci sono parallelismi con l’uso che Mussolini fece del Red Scare, la minaccia rossa, e della paura di un totalitarismo senza Dio per ottenere il consenso per la marcia verso il fascismo. Nel suo discorso del 5 febbraio 2019 sullo stato dell’Unione, il Presidente Donald Trump ha affermato che ‘L’America non sarà mai un Paese socialista; siamo nati liberi e rimarremo liberi’. Come fattore storico dell’equazione tra socialismo e tirannia posso citare la Grande Frontiera che permetteva ai coloni di appropriarsi delle terre degli Indiani e i Robber Barons, che nell’800 acquisirono terreni in tutto il Paese per costruire ferrovie, controllando anche la politica, e ai quali risale la maggior parte dei patrimoni più vasti degli Stati Uniti. Un’altra ragione è che gli oligarchi capitalisti repubblicani, anche grazie al controllo dei media come già accaduto in Italia con Berlusconi, sono stati in grado di convincere la maggioranza delle persone che il comunismo e il socialismo li avrebbero privati della libertà. Ancora oggi, chiunque parli di socialismo, anche in relazione a una cosa sensata come l’assistenza sanitaria, è accusato di voler trasformare gli Stati Uniti nel Venezuela. Il mio è il Paese più ricco del mondo ma c’è molta insicurezza tra la gente a causa della mancanza di assistenza sanitaria, perché se ti ammali rischi la bancarotta e la perdita della casa».

Hai capito ’sti romagnoli, facevano paura pure alla CIA… E fu così che la bella Alison alias Alice, anziché compiacere il professore cattivo che pronosticava la fine delle utopie, portò in America il seme della rivoluzione cooperativa.

VALENTINA AMADEI