“La scuola delle mogli”, la regia malinconica di Arturo Cirillo

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La scuola delle mogli, Arturo Cirillo, foto di Bobo Antic

Di Arturo Cirillo ricordiamo soprattutto i bellissimi e struggenti melodrammi portati in scena in questi ultimi anni, dai classici di Tennessee Williams, Lo zoo di vetro e La gatta sul tetto che scotta, ai testi di ambientazione napoletana, da Annibale Ruccello, forse il suo autore prediletto (Ferdinando e Le cinque rose di Jennifer), fino, più recentemente a Giuseppe Patroni Griffi (Scende giù per Toledo). Un autore ricorrente nella sua produzione teatrale è Molière, con il quale si manifesta invece la sua attitudine più leggera alla commedia e alla rappresentazione farsesca. La scuola delle mogli, reso nella traduzione di Cesare Garboli, è il terzo adattamento da questo autore, dopo Le intellettuali e L’avaro. Il testo venne rappresentato per la prima volta a Parigi nel 1662, l’anno in cui Molière sposa una ragazza appena diciannovenne, un’unione ritenuta da molti scandalosa e forse incestuosa. Accanto ai temi ricorrenti della sua drammaturgia, la critica feroce e senza scampo della realtà sociale dell’epoca e della grettezza morale del mondo nobiliare, affiorano anche temi autobiografici, in particolare nel desiderio di essere amato del protagonista Arnolfo, destinato a rimanere inappagato.

Arnolfo (crudele e gigionesco nell’interpretazione di Arturo Cirillo), è un signorotto un po’ attempato. Nella prima scena lo vediamo svelare all’amico Crisaldo il suo progetto: ossessionato dalla gelosia e dal timore dell’infedeltà coniugale, egli ha allevato fin dalla più tenera età una ragazza, Agnese, tenendola segregata e immersa nella più totale ignoranza ed innocenza, con l’obiettivo di farne una moglie virtuosa (che per lui equivale a dire una perfetta oca), da poter sposare confidando pienamente sulla sua totale inettitudine a tramare tresche ed inganni con altri uomini. Una marionetta da poter manovrare a proprio piacere. A nulla valgono i tentativi di Crisaldo di dissuaderlo dall’assurdità di questo proposito e di convincerlo che l’unico modo per non soggiacere alle preoccupazioni del tradimento è quello di non prender moglie. Arnolfo vuole amare ed essere amato, sia pure in questa forma caricaturale.

Il suo intento sarà vanificato dalle attenzioni che Agnese riceverà dal primo giovane, Orazio, che, una volta cresciuta, si troverà ad incontrare casualmente. La sua stessa ingenuità determinerà la propria mancanza di difesa rispetto all’amore. E l’innocenza con cui Agnese comunica ad Arnolfo i suoi sentimenti verso Orazio, disarma e rende vana qualsiasi azione tesa a scoraggiare l’amore tra i due giovani.

Cirillo mette in scena il testo di Molière in una scena spoglia, apparentemente senza tempo, con gli uomini che indossano buffi costumi arabescati. Al centro della scena sorge una casetta dai tratti stilizzati, al cui primo piano vive, imprigionata, Agnese. Indossa un grazioso vestitino rosa, che la fa assomigliare ad un bambolotto, così come i suoi movimenti, leggermente meccanici ed innaturali. È una scenografia che ricorda appunto una casa di bambole, costruita per assecondare i capricci di Arnolfo e la sua idea dell’amore, come sopraffazione esercitata da un uomo maturo nei confronti di una giovane donna inconsapevole.

La regia malinconica, seppur con forti elementi di farsa che rimanda agli autori classici della commedia popolare partenopea, ci accompagna lungo tutto il percorso della vicenda, quasi spiazzando lo spettatore e facendo prevalere in quest’ultimo il senso tragico della storia alla comicità grottesca delle situazioni in cui si ritrovano i protagonisti. Arturo Cirillo conserva il messaggio di critica sociale di Molière, e lo arricchisce di riferimenti attuali sul ruolo della donna nell’ambito del rapporto matrimoniale e familiare, facendoci riflettere sulle storie di segregazione e di violenza che la cronaca ogni giorno ci racconta e svelandoci l’attualità del testo di Molière.

di Dario Zanuso e Aldo Zoppo

Visto al Teatro Bonci di Cesena il 17 marzo 2019