Le forme del sacro: un piccolo atlante visivo da Torino a Napoli, passando per Reggio Emilia

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MAO Torino - Giardino zen

 

Qualche pensiero su opere viste e da vedere. Accompagnati da un bel libro di John Berger.

Breve premessa, minime indicazioni.

Desideriamo dar conto -e al contempo calorosamente suggerire- tre visite e una lettura delle ultime settimane:  il commovente Museo d’Arte Orientale di Torino, l’edizione 2019 di Fotografia Europea a Reggio Emilia (manifestazione che sempre fa scoprire autori sorprendenti), il vitalissimo Museo Madre di Napoli. E Questione di sguardi. Sette inviti al vedere fra storia dell’arte e quotidianità di John Berger (edizioni Il Saggiatore, Milano, 2015).

 

 

Lo stimolante volume del critico d’arte, scrittore e pittore britannico si pone un esplicito obiettivo: «sollevare dubbi e porre domande».

Analogamente, in queste inevitabilmente parziali notarelle (ciascuno degli artisti e delle culture incontrati merita intere bibliografie) non vi è pretesa di esaustività alcuna. Piuttosto, del tutto arbitrariamente, verranno «utilizzati» questi artisti e questi sistemi di significati come semplice e concreta occasione di interrogazione allo sguardo.

Lo si farà in forma di atlante visivo. Anche in questo senso siamo debitori al libro di Berger: composto da sette saggi, tre si servono unicamente di immagini.

Articoleremo un breve percorso, nel quale le note sotto a ciascuna immagine avranno funzione anti-didascalica: lungi dal voler spiegare (né tanto meno, evidentemente, esaurire) l’argomento, esse cercheranno unicamente di portare a emersione alcuni dei molti interrogativi possibili.

 

Anish Kapoor, Dark Brother, 2005. Courtesy Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee, Napoli. Foto © Amedeo Benestante

 

«Nell’incavo sul pavimento della sua sala al Madre, Anish Kapoor con un grande effetto di spiazzamento veicola lo sguardo dello spettatore verso l’infinito e verso le viscere della madre terra»: ha forse senso iniziare questo proteiforme attraversamento con un’opera radicale, incontrata negli spazi affollati di persone di ogni tipologia ed età dell’attivissimo museo napoletano.

Se è vero, come riflette John Berger, che «ciò che guardiamo è, sempre, il rapporto che esiste fra noi e le cose», quanto per noi l’esperienza dell’arte (e dunque, per estensione, del mondo) ha a che fare con il mistero?

Quanto siamo disposti a perderci, in ciò che vediamo?

 

MAO Torino – Galleria Asia meridionale – foto di Ida Bassi

 

«All’origine le immagini furono prodotte per evocare ciò che era assente» (ancora John Berger): in bilico tra Plinio il Vecchio e Walter Benjamin, la (facilità della) riproduzione delle immagini de-sacralizza l’esperienza del trascendente? O, al contrario, rende il nostro rapporto con il sacro più quotidiano, accessibile, dunque naturale?

«I Buddha vanno sopra i comodini» cantava Battiato quarant’anni fa. «Dentro ai telefonini» potremmo dire oggi, in rima.

 

MAO Torino – Galleria Asia meridionale

 

Ancora. Rispetto al rapporto con il sacro.

Al di là di ogni valutazione storica, nella nostra personale percezione con ogni probabilità un’opera che rimanda a qualcosa di comunemente riconducibile alla spiritualità ha più valore rispetto a una che ha per oggetto un gesto quotidiano (come ad esempio sbucciare alcune cipolle, ancorché «sante»).

Perché?

Cosa ha informato tale convinzione?

 

Fotografia Europea 019 > Motoyuki Daifu, Holy Onion, 2019

 

Ancora: sul valore.

«L’arte gode di maggior considerazione del commercio – si dice che il suo prezzo di mercato è un riflesso del suo valore spirituale» (John Berger, ancora).

Nella nostra percezione quale merita maggiore apprezzamento sul piano artistico, fra queste due immagini di Horst P. Horst (entrambe in mostra a Palazzo Magnani, Reggio Emilia)?

 

Fotografia Europea 019 > Horst P. Horst, Mainbocher corset, Paris 1939, cm 40,5×50,5 cs. Courtesy Paci contemporary gallery (Brescia – Porto Cervo, IT)

 

e

 

Fotografie Europea 019 > 2. Horst P. Horst, Lisa Fonnsagrives-Penn, Vogue, June 1940, cm 80×105 cs. Courtesy Paci contemporary gallery (Brescia – Porto Cervo, IT)

Perché?

 

Jan Fabre, The Man Who Measures the Clouds / L’uomo che misura le nuvole, 2018. Courtesy l’artista; Studio Trisorio, Napoli. Veduta dell’installazione al museo Madre, Napoli, nell’ambito della mostra Jan Fabre. Oro Rosso, Museo e Real Bosco di Capodimonte, Napoli (30.03.19-30.09.19). Foto © Amedeo Benestante

 

Dalle stelle alla stalle, si potrebbe brutalmente sintetizzare.

«Desiderare»: dall’accezione etimologica medioevale dell’«interrogare le stelle» fino ad altre più prosaiche, carnali, finanche grevi significazioni.

Il poliedrico Jan Fabre, si sa, è stato oggetto negli ultimi tempi di pesanti accuse, in tal senso, rivoltegli da alcune persone che hanno collaborato con lui.

Se si pensa al «legame tra arte e vita» da molti portato come indice di qualità, la biografia di un creatore d’arte può essere disgiunta dall’incontro con le opere da lui prodotte?

 

Robert Mapplethorpe, Phillip, 1979. © Robert Mapplethorpe Foundation. Used by permission – mostra Robert Mapplethorpe. Coreografia per una mostra / Choreography for an Exhibition al museo Madre di Napoli

 

e

 

Fotografia Europea 019 > Pixy Liao – It’s never been easy to carry you, 2013

 

Ancora. Nella nostra percezione, l’arte come espressione della propria biografia, se non dei propri sentimenti, è un plusvalore?

Perché?

[qui sopra: la proteiforme sessualità del celeberrimo Robert Mapplethorpe (in merito al quale davvero non occorrono spiegazioni) in mostra a Napoli e il legame di coppia della cinese Pixy Liao, oggetto della personale Experimental Relationship (2007 to now) ai Chiostri di San Pietro a Reggio Emilia]

 

Fotografia Europea 019 > 14. Jacopo Benassi, Untitled-8

 

«Il fotografo sembra premere l’acceleratore sull’impietosa decadenza in agguato tanto per il corpo umano che per un corpo artificiale (come quello di una statua antica)»: quale idea di bello sottende al nostro sguardo?

Più precisamente: quale rapporto tra il corpo e la sua rappresentazione rende un’opera d’arte pregevole?

La sua esatta riproduzione (il «sembra vero!» che normalmente certifica la comunemente percepita qualità, ad esempio di un ritratto)?

Oppure qualcosa di altro, non formale?

Questo eventuale altro è definibile a parole?

E mediante quale capriola del pensiero (o dell’esperienza) questo altro, carnale e incarnato, potrebbe avvicinare la nostra idea di sacro?

 

Giovanni Anselmo, Invisibile, 2007. Courtesy Archivio Anselmo & Tucci Russo Gallery, Torino. In comodato a Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Napoli. Foto © Amedeo Benestante. | Giovanni Anselmo, Invisibile / Invisible, 2007. Courtesy Archivio Anselmo & Tucci Russo Gallery, Turin. On loan to Madre · museo d’arte contemporanea Donnaregina, Naples. Photo © Amedeo Benestante

 

Tornando dunque al punto di partenza: quanto l’arte ha a che fare con l’invisibile?

E quanto per farne esperienza occorre «ancorarsi» al suo opposto, cioè a qualcosa percepibile con i sensi?

È compito di uno spazio museale, per dirla con Michel De Certeau, «farsi luogo» di tale esperienza (si veda l’immagine del Giardino zen in apertura) piuttosto che mero contenitore di oggetti «da ammirare»?

È, infine, sopprimibile lo iato fra la forma dell’opera, il luogo che la contiene e ciò a cui essi rimandano?

 

opera di Emilio Isgrò

 

Il Belpaese si manifesta ancora una volta intriso di diverse forme, o meglio idee, di bellezza.

A ciascuno la sua.

(invito esplicito: prender su e andare a vedere)

 

MICHELE PASCARELLA

 

Info: https://www.maotorino.it/it, https://www.fotografiaeuropea.it/fe2019/, http://www.madrenapoli.it/, https://www.ilsaggiatore.com/libro/questione-di-sguardi-2/