Trasparenze a Modena: relazioni, intrecci, domande

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foto di Chiara Ferrin

 

Un giorno e mezzo al vivissimo Festival curato dal Teatro dei Venti. Il nostro racconto.

«Mi piace dare una mano, è importante che ci siano cose come questa» dice la volontaria che alle 22, puntualissima, mi raccoglie davanti alla stazione ferroviaria di Modena per portarmi all’Area Festival «Per anni ho partecipato ai corsi tenuti dal Teatro dei Venti. Ora a causa del lavoro non riesco più a farlo con agio, ma ogni anno sono contenta di essere d’aiuto. Spettacoli quest’anno non ne vedo, perché sto in cucina e faccio la driver. Che poi gliel’ho detto, siete sicuri, non ho un gran senso dell’orientamento, io, mi perdo sempre. Per fortuna c’è Google Map».

Ancor prima di arrivare a Trasparenze ne scorgiamo, forse, il più importante ed evidente segno:  Festival come fugace emersione di un lavorio che tutto l’anno intreccia persone, dunque mondi.

Un’attitudine pervicacemente comunitaria che di edizione in edizione (questa è la settima) abbiamo visto crescere e modificarsi.

Come ogni cosa viva, si cambia. Non replicare formule consolidate. Camminare. Muoversi e muovere: commuovere.

 

foto di Chiara Ferrin

 

Arriviamo in Area Festival. Venerdì sera, son quasi le 22.30 (chiacchierando abbiamo sbagliato strada un paio di volte, tra la stazione ferroviaria e via San Giovanni Bosco).

Musica, cibo, una quantità di persone di ogni età: i ragazzi della Konsulta, altri adolescenti, signore con la permanente, uomini e donne di molte nazionalità, i gentilissimi volontari del Festival, molti critici arrivati da ogni dove e lo staff (tra cui la referente degli ospiti, giovane e straordinariamente paziente e accogliente, Giulia Maman, una specie di angelo che con professionale levità e con mille sorridenti attenzioni  fa sentire tutti a casa).

«Piantate un palo adorno di fiori in mezzo a una piazza, riunitevi intorno il popolo, e avrete una festa»: il celeberrimo frammento della Lettera a d’Alembert sugli spettacoli di Rousseau torna utile, ancora e ancora, a sintetizzare la funzione di questa opera che è il Festival. Azione artistica della e per la polis, dunque politica. Non mero contenitore di spettacoli ma atto estetico, dunque conoscitivo, in sé.

Relazioni, intrecci, domande al cuore di questo fare.

«Tutto questo è già più di tanto / più delle terre sognate» cantava Fossati ormai trentatré anni fa in Una notte in Italia, e noi con lui, in questa prima notte non ancora cominciata, potremmo essere già appagati, soprattutto pensando a un panorama nazionale sempre più autarchico e autocelebrativo: per questa opera-Festival che insegue e persegue l’opera dell’arte.

Ma certo i lavori incontrati meritano almeno un accenno, che forse è corretto articolare secondo la linea di Trasparenze: proposizioni performative come occasioni di relazioni, intrecci, domande.

 

foto di Chiara Ferrin

 

Nell’affollatissima sala del Teatro dei Segni è presentato Concerto Fisico di e con Michela Lucenti / Balletto Civile, artista e ensemble di cui da anni seguiamo il percorso e che apprezziamo per la non scontata né consueta attitudine all’esplorazione, al rischio, al rinnovamento. A interrogare il proprio fare e la scena in direzioni non garantite né consolidate. Ad esempio: stilisticamente e drammaturgicamente agli antipodi rispetto al tagliente minimalismo coreografico nel più recente loro lavoro da noi incontrato (Shakespeare / Sonetti di e con Valter Malosti – chi fosse interessato può leggere qui la nostra recensione), questo Concerto, che debutterà ufficialmente a Kilowatt Festival nell’estate 2019 ma la cui «non struttura» sostanzialmente non varierà, come ci ha spiegato la stessa Lucenti, si pone come luogo dell’eccesso, della dismisura, della barocca sovrabbondanza di segni.

Una pedana sonorizzata genera e amplifica suoni, tanto quanto la postazione “tecnica” cinta da coperte dorate posta su un lato dello spazio scenico ingombro di cavi e paccottiglia, che Lucenti invade e pervade con testi detti e cantati e una partitura coreografica che senza posa svirgola rispetto alle direzioni che pare aver preso. Una ridda di maschere vocaliche e fisiche fuori misura affiorano dal dinamico affaccendarsi della performer e dei due “tecnici” (del tutto esilarante il brevissimo monologo “giapponese” interpretato da Maurizio Camilli).

«Secondo il canone critico, la condizione fondativa della bellezza e del gusto è quella dell’equilibrio» sintetizza lo storico dell’arte Simone Azzoni nel suo recente saggio Lo sguardo della gallina alla voce “kitsch” «rispetto alla quale il cattivo gusto si decifra in negativo  per eccesso o dismisura».

Un inedito affondo “antigrazioso”, si potrebbe dire con il futurista Boccioni, per questo Concerto: un intenzionale  smottamento da un sapere coreutico che può divenir zavorra, allorquando diventi maniera.

«Ora mi ero di ostacolo io stessa» sintetizza Lucenti, con lucido coraggio e un tempo imperfetto à la Amelia Rosselli.

 

foto di Chiara Ferrin

 

Subito dopo mezzanotte ci spostiamo in uno spazio nella primissima periferia di Modena, dove il Collettivo Amigdala propone Elementare, esperienza della durata di una notte che fa della condivisione di uno stesso luogo, attuanti e spettatori, il punctum. Come gli aborigeni citati da Bruce Chatwin nel celeberrimo romanzo generazionale Le Vie dei Canti, che «cantando ricreavano il mondo», in Elementare i performer, che eseguono a cappella una complessa partitura vocalica spazializzando il suono mediante precise delocazioni nello spazio (ingombro di materassi, cuscini e coperte, forniti affinché le persone possano fruire questa esperienza alternando momenti di sonno e di veglia), ri-creano una temporanea comunità di umani riuniti per aspettare insieme l’alba.

L’indubbia maestria degli interpreti non va forse guardata come forma (d’arte) in quanto tale. Piuttosto come occasione, tra il sognante e il chirurgicamente esatto, di incontro fuori dai modi e dai tempi della quotidianità e dello spesso annichilente sistema dello spettacolo, che rende una proposta come questa certo non facile da proporre se non in contesti festivalieri che funzionino come altro rispetto ai consueti (desueti?) contesti di programmazione.

 

foto di Chiara Ferrin

 

In quasi tutte le cosmogonie, com’è noto, elementi acustici intervengono nel momento decisivo. Il dio espira, sospira, parla, canta, grida, urla, tossisce, espettora, singhiozza, vomita, tuona. Elementare (nomen omen) costituisce un grado zero, ammaliante e fecondo, di creazione di relazioni inaudite attraverso la voce e il luogo (De Certeau docet)  che essa istituisce.

A far da contrappunto, lacerti testuali vengono tracciati su teli e pannelli: voce che crea.

La presentazione di Elementare è anche la prima parte della collaborazione “ufficiale” tra il Festival Trasparenze e Periferico, prezioso Festival che il Collettivo Amigdala cura da anni e che, dopo un primo periodo “itinerante”, da qualche tempo si è insediato al Villaggio Artigiano di Modena Ovest, che l’ensemble pervicacemente e visionariamente anima tutto l’anno con una serie di progetti culturali e artistici inclusivi di assoluto valore e interesse. Elementare a Trasparenze Festival si pone, di fatto, come una sorta di anteprima all’edizione 2019 di Periferico, che avrà luogo dall’8 al 12 maggio (noi ci saremo, vi racconteremo).

 

foto di Chiara Ferrin

 

Il giorno dopo, nel primo pomeriggio, presso la Casa Protetta San Giovanni Bosco assistiamo all’esito di un breve percorso laboratoriale che Anna Gesualdi e Giovanni Trono (TeatrInGestAzione) hanno condotto con un gruppo di utenti della struttura.

Seduti attorno a un tavolo, gli ospiti sono impegnati in una serie di azioni minimali: inclinare il busto, muovere in sincrono mani e avambracci, girare attorno al tavolo, su un proteiforme tappeto sonoro che interseca sonorità elettriche, il suono del vento, musica d’archi in minore e frammenti testuali.

Questa esposizione pare riportare il teatro all’accezione originaria / etimologica di “luogo dello sguardo”: è un accadimento che fornisce al pubblico del Festival l’occasione di dedicare attenzione (commossa, partecipe o scettica a seconda delle idee, delle esperienze e della sensibilità di ciascuno) a una umanità dolente che con inaudita sfrontatezza e al contempo con misurato pudore offre un piccolo fare che vale in quanto accadimento, in un fragile qui e ora che se da un lato è proprio di ogni arte performativa, in questo caso costituisce, forse, l’essenza primaria di questa proposizione fenomenica.

 

foto di Chiara Ferrin

 

A seguire, nell’antistante Teatro dei Segni, partecipiamo alla condivisione dei frutti dell’incontro fra Roberto Scappin e Paola Vannoni e alcuni utenti seguiti dal Servizio Salute Mentale dell’Ausl di Modena afferenti al Gruppo L’Albatro.

Una fiducia di marca fenomenologica pare sottendere a ciò che è dato a vedere, costruito interpolando frammenti video ad altri live.

La caustica ironia, la sottile sapienza compositiva e la precisa attenzione alle parole che i fondatori di Quotidiana.com portano nei loro spettacoli, pare di poter sintetizzare, è alla base di questi Sassolini, giustapposti mettendo in forma ritmica un contenuto del tutto fornito dagli utenti: come non pensare a Franco Vaccari, quando nel 1972 propose alla Biennale di Venezia la celebre installazione che invitava i passanti a lasciare tracce fotografiche del proprio passaggio (in quel caso mediante autoscatti fotografici, in questo mediante minimi autoritratti verbalizzati)?

Si sorride e ci si commuove, per una prassi di relazione con la diversa abilità che non è tesa né ad esaltarla né a ridurla o peggio a normalizzarla, piuttosto a guardarla nella sua irriducibile, e al contempo pienamente bastante, datità.

 

foto di Chiara Ferrin

 

Sfidando un meteo decisamente minaccioso, alla sera vi è il debutto ufficiale di Moby Dick, mastodontica creazione per gli spazi aperti del Teatro dei Venti già presentata in alcune anteprime, in Italia e altrove, nei mesi scorsi.

Introdotto da un denso incontro con Giulio Sonno che ne ha curato la drammaturgia, lo spettacolo si pone come summa, socio-antropologica ancor prima che stilistica, del lavoro della Compagnia guidata da Stefano Tè.

Diverse decine di persone di molte età, biografie, provenienze e competenze danno corpo a un allestimento teso, come ha spiegato lo studioso romano nell’utile conversazione preliminare, a interrogarsi sulle questioni politiche e sociali che il romanzo di Melville pone, oltre che a restituirne per sommi capi la vicenda.

Dal punto di vista testuale, il Moby Dick del Teatro dei Venti ne interseca alcuni frammenti, ritradotti da Sonno a partire dall’originale in lingua inglese, con brani del Faust di Goethe e del Qohèlet nella storica traduzione di Guido Ceronetti.

Ma la componente esplicitamente letteraria è solo una, e forse minoritaria, di questo monumentale dispositivo.

Un’enorme piattaforma di legno, trascinata a viva forza al centro dello spazio scenico da un gruppo di vigorosi uomini a petto nudo, sotto agli occhi del numerosissimo pubblico di tutte le età diviene, al ritmo di fragorose percussioni,  prima nave e poi scheletro della mitologica balena.

Il dato spettacolare è certo predominante, in questo allestimento in cui i diversi elementi concorrono a creare un effetto di stupore e attrazione (come non pensare al “montaggio delle attrazioni” teorizzato e in parte praticato da Sergej Michajlovič Ėjzenštejn?) .

Trampoli e secchi d’acqua, barili di legno e acrobazie, abiti da pirati e duelli, chitarra e sassofono, tastiera e batteria, sincroni e composizioni statuarie, in un’impresa dei “molti” che fa pensare –per dispendio di mezzi e ampiezza della visione- alle storiche messinscene sognate e realizzate dal duca Giorgio II di Sassonia-Meiningen un secolo e mezzo fa. Una energia decisamente maschile, affatto muscolare ed estroflessa caratterizza questo Moby Dick, concepito come evento “di punta” dell’edizione 2019 di Trasparenze.

 

foto di Chiara Ferrin

 

La nostra presenza al Festival termina la mattina seguente con la partecipazione a Un.habitants | To make room for us di Caterina Moroni, esperienza immersiva site specific accaduta al Cimitero di San Cataldo a Modena.

Il rigorosamente suggestivo dispositivo elaborato dall’artista umbra ci sembra sintetizzare perfettamente, e al contempo rilanciare, le tre parole che hanno guidato il nostro parziale attraversamento: relazioni, intrecci, domande.

Un.habitants è da noi fruito insieme a sole altre tre persone (unicamente a causa del meteo “avverso”, giacché tutti gli eventi di Trasparenze sono sold out): una condizione a suo modo propizia, in quanto il vento gelido e la pioggia incombente donano un’inaspettata intensità “nordica” all’esperienza, già di per sé carica di archetipi emotivamente coinvolgenti essendo costituita dall’incontro individuale, guidati da mappe e da cuffie, con una sconosciuta persona defunta e lì sepolta.

L’incipit fa pensare a quello di Volver di Pedro Almodóvar, in cui alcune donne si affaccendano attorno ad alcune tombe.

Qui la stessa Moroni, in figura di fioraia, consegna a ciascuno un fiore che si andrà a depositare sulla lapide a cui si è destinati, luogo che si dovrà anche innaffiare, di fronte a cui si sarà invitati a ballare e di fianco al quale ci si potrà, per qualche attimo, stendere.

Nel momento del nostro attraversamento, nel Cimitero quasi vuoto vengono diffuse, tramite altoparlanti, le formule di una celebrazione eucaristica cattolica in corso, le cui parole si intrecciano a ciò che si riceve in cuffia. Una fortuita sovrapposizione che costituisce una possibile chiave di lettura di questa proposta commovente (nel senso etimologico del far muovere insieme, fisicamente ed emotivamente): accoglienza dell’istante vs legge morale, qui e ora vs categorie di giudizio (bene e male, giusto e sbagliato).

Un.habitants fonda la propria efficacia (opera dell’arte, ancora) sulla qualità della presenza, della performer tanto quanto dei visitatori: il modo in cui si viene veramente guardati all’inizio per individuare il fiore da consegnare così come l’attitudine con la quale veramente lo si riceve e si compiono le elementari azioni suggerite rendono questa esperienza pienamente individuale al contempo affatto larga, universale.

Si attraversano corridoi e sentieri zeppi di lapidi, con in cuffia struggenti canzoni in lingua spagnola intersecate a voci e borbottii, immergendosi in un paesaggio al contempo quotidiano e archetipico, feriale e mitologico.

Misura e dismisura caratterizzano il viaggio circolare di Un.habitants, dalla vita alla morte alla vita.

Il finale è del tutto indimenticabile, con la stessa Moroni che lentamente indietreggia in un lunghissimo corridoio costellato di lapidi: una minuscola danza atta a scomparire, frutto di un’attenzione sottile al dialogo fra corpo e architettura, certo, ma anche ritorno al senso etimologico del teatro.

Luogo dello sguardo, luogo della visione.

Ad affacciarsi su «una cifra di cose che non sappiamo», come direbbe Borges.

Tanto, tanto altro ci sarebbe da dire su questi spettacoli, sulle donne e gli uomini che li hanno voluti e incarnati. Su coloro che durante tutto l’anno alimentano questa rivoluzione gentile.

Per ora mi fermo qui.

E ringrazio.

 

MICHELE PASCARELLA

 

info: trasparenzefestival.it