Visti da noi al Biografilm: “Vivere, che rischio” e “Push”

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Un frame del documentario "Vivere, che rischio", 2019

Cosa unisce la storia di Cesare Maltoni, oncologo di fama mondiale e fondatore dell’Istituto Ramazzini di Bologna, e quella di Leilani Farha, relatrice dell’ONU per il riconoscimento del diritto a standard abitativi adeguati?

Entrambi sono funzionari e dirigenti pubblici, in campi tra loro diversissimi: la sanità pubblica e l’analisi delle politiche pubbliche nel campo abitativo. Entrambi svolgono il loro ruolo con attitudine ben diversa da quella di chi con ordinaria diligenza assolve ai propri compiti. Hanno un obiettivo che perseguono con tenacia e passione, quello di creare le condizioni per rendere effettivi due diritti umani fondamentali, quello alla salute e alla casa, attraverso la promozione di nuove politiche pubbliche e non esitando, quando necessario, a contrastare e combattere le grandi corporation (industrie petrolchimiche e multinazionali del settore immobiliare), che quei diritti possono pregiudicare. Le loro storie sono raccontate in due film presentati all’ultima edizione del Biografilm Festival, e che è ancora possibile vedere nelle proiezioni che trovate indicate alla fine dell’articolo.

Vivere, che rischio, dei documentaristi bolognesi Michele Mellara e Alessandro Rossi ci racconta la vita e l’impegno nella ricerca oncologica di Cesare Maltoni (originario di Faenza e vissuto professionalmente a Bologna), pioniere della cancerogenesi ambientale e industriale che ha fatto della prevenzione oncologica e della lotta al cancro la sua ragione di vita. Il documentario affida la narrazione ai pensieri e agli scritti di Maltoni, interpretati dalla voce appassionata dell’attore ravennate Luigi Dadina, alle interviste di repertorio allo stesso Maltoni e alle testimonianze di alcuni dei suoi collaboratori. Al centro del racconto è soprattutto la sua vita professionale, ma non mancano i riferimenti alla vita privata ed alla sua omosessualità.

Il giovane Maltoni sembra avviato ad una promettente carriera universitaria nel campo della medicina e della ricerca. Durante il proprio apprendistato all’Università di Chicago impara a conoscere le più avanzate tecniche e metodologie della ricerca di laboratorio. Al rientro in Italia decide di lasciare l’Università per dedicarsi all’assistenza, nel settore oncologico. Le prime esperienze sono disarmanti: gli vengono affidati pazienti in cui la malattia è ormai in uno stadio molto avanzato, per i quali è possibile oramai fare ben poco. Comprende, anche grazie alla sua esperienza in laboratorio, che la prevenzione è l’arma principale per sconfiggere il cancro. Da questa consapevolezza nasce l’obiettivo, profondamente innovativo, di avviare uno screening sui tumori al collo dell’utero, indirizzato a tutta la popolazione femminile. Grazie all’appoggio di una politica lungimirante (i dirigenti del PCI che portarono l’Emilia Romagna all’avanguardia nella costruzione dello stato sociale) lo screening prende il via nel 1965, con risultati straordinari. Sarà un modello imitato e diffuso in tutto il mondo.

Ancora più lungimirante è la consapevolezza di quanto la modernità industriale e gli effetti del consumismo comportassero, accanto al miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini, anche elevatissimi rischi potenziali per la salute collettiva. Le grandi multinazionali della chimica, mosse prioritariamente dalla ricerca del profitto, impiegavano infatti massicciamente sostanze innovative, per produrre oggetti di consumo ed uso comune, senza in alcun modo preoccuparsi di indagare preventivamente la loro possibile tossicità. Alcune di queste sostanze (si pensi, per fare qualche esempio, all’utilizzo dell’eternit nel settore edile o del cloruro di vinile nel settore della plastica), a lungo andare, provocavano effetti dannosi e cancerogeni per gli operai che lavoravano nelle linee di produzione e per le persone che poi utilizzavano i prodotti finale nella loro vita quotidiana. Attraverso una serie di complessi e lunghi studi di laboratorio (che prevedevano l’esposizione di migliaia di topolini alle sostanze tossiche) Maltoni fornì importanti contributi scientifici diretti a mostrare la pericolosità di queste ed altre sostanze, scontrandosi apertamente con il mondo dell’industria, che quei risultati cercò con forza di contestare (grazie anche al sostegno di scienziati compiacenti e ben foraggiati). A Bologna vennero organizzati importantissimi convegni, diretti a favorire la raccolta e la diffusione degli esiti delle ricerche condotte in questi campi. Nel film vediamo Maltoni dire: “Facciamo venire il mondo a Bologna! Ma non per i tortellini, per la ricerca sul cancro!”. Le immagini di repertorio ci mostrano anche alcune delle innumerevoli testimonianze che fu chiamato a rendere nei processi in cui si cercava di dimostrare la responsabilità degli industriali nell’impiego di questi materiali, nonostante ne fosse ormai nota la pericolosità.

Un altro progetto fortemente innovato perseguito da Maltoni fu quello che accompagnò lo sviluppo della medicina palliativa, con la nascita del primo Hospice italiano progettato in funzione delle specifiche esigenze di trattamento dei malati oncologici terminali.

Il film ripercorre i successi nella ricerca di Maltoni e la nascita delle istituzioni che diedero gambe ai suoi progetti: in particolare l’Istituto Ramazzini, con sede presso il castello di Bentivoglio. Ma ci mostra anche i momenti difficili, di solitudine, quando non si sentiva adeguatamente sostenuto nei suoi sforzi. Emerge soprattutto l’entusiasmo e la voglia di lottare per affermare i propri obiettivi di un uomo all’apparenza così mite e riservato.

Push, di Fredrik Gertten, ci porta nei quartieri periferici di grandi città (Toronto, Valparaiso, Londra, Seul, Barcellona, New York, Berlino) dove si dispiegano rilevanti fenomeni di gentrificazione, la trasformazione di un quartiere popolare in zona abitativa di pregio, con conseguente cambiamento della composizione sociale e dei prezzi delle abitazioni. Questi processi li vediamo concretizzati nella vita di alcune persone, che ne subiscono le conseguenze sulla propria esistenza.

A raccogliere queste testimonianze di vita è una donna, Leilani Farha, relatrice dell’ONU per il diritto a standard abitativi adeguati, che cerca di individuare le cause di processi che interessano molte grandi città e di documentarne gli effetti. Dietro a questi fenomeni si nascondono il più delle volte le strategie di investimento di potenti multinazionali della finanza, quali la Blackstone. Acquisiscono a prezzi di saldo (approfittando delle conseguenze della depressione economica e della crisi finanziaria) moltissimi immobili in quartieri popolari con l’obiettivo, ad esempio, di ristrutturarli e di rivenderli od affittarli con canoni molto più elevati di quelli pagati dagli inquilini originari. In questo modo costringono di fatto questi ultimi ad abbandonare il quartiere in cui hanno vissuto da decenni o da generazioni. Determinano inoltre la desertificazione sociale di aree urbane fino ad allora abitate da operai o impiegati della classe media, che avevano costruito un loro microcosmo di vita e di relazioni fortemente connotato culturalmente (come vediamo nel bar di Toronto con cui si apre il film, forse costretto a chiudere). E tutto questo in nome della logica del profitto di breve termine, per la quale gli immobili diventano assets utili alle operazioni di borsa ed alle acquisizioni di grandi gruppi di investitori, compresi i fondi pensione, di ogni parte del mondo.

Il meccanismo che viene rappresentato è quello della contrapposizione tra la finanza virtuale, che si alimenta attraverso gli investimenti immobiliari, e la realtà sociale che subisce gli effetti di queste potenze economiche, venendone distrutta nei suoi elementi costitutivi, con la conseguente compromissione di basilari diritti fondamentali.

Il film ci mostra anche l’impotenza della politica di fronte a questi meccanismi economici e finanziari che richiedono anticorpi spesso costosi e che gran parte delle comunità coinvolte non si possono permettere. Le interviste di Leilani Farha a personaggi della cultura, dell’economia e della politica di ogni parte del mondo (c’è anche un incontro con Roberto Saviano, il quale in poche parole descrive il meccanismo del riciclaggio del denaro sporco di organizzazioni criminose attraverso acquisti e vendite proprio nel settore immobiliare) ci fanno capire come il lavoro da portare avanti sia immane e difficile. Sono sconfortanti le immagini in cui Farha riferisce all’ONU degli esiti delle sue ricerche sul campo, in una seduta quasi deserta, tra la palese disattenzione dei rappresentanti presenti in aula, concentrati sui loro cellulari. Ma Farha non si arrende e cerca di costruire una rete con gli amministratori locali delle città colpite da questi fenomeni, con l’obiettivo di individuare e socializzare possibili soluzioni per contrastare il loro diffondersi. Le immagini più emozionanti ed efficaci del film sono quelle in cui è mostrata l’incredulità e la disperazione delle persone che vengono private, in vari modi, della loro abitazione e spesso della loro vita.

I due film ci fanno riflettere sulla straordinaria importanza della politica e dell’intervento pubblico, contro l’ideologia dominante del neo-liberismo, nella tutela di essenziali beni pubblici e interessi collettivi.

Aldo Zanuso e Dario Zoppo

Vivere, che rischio, di Alessandro Rossi e Michele Mellara, Italia 2019, 83’

(l’11 giugno al cinema Arlecchino, alle 19; il 17 giugno al cinema Galliera, alle 21,15)

Push, di Fredrik Gertten, Svezia 2019, 91’

(il 12 giugno al cinema Europa, alle 22,30)