Theatrum mundi: note su “pro e contra dostoevskij” di Archivio Zeta al Cimitero militare germanico Futa Pass

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«Vasto davvero è l’uomo, fin troppo vasto: io lo restringerei!»: un frammento del testo drammaturgico che Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni hanno composto intrecciando due capolavori di Fëdor Dostoevskij  (Il sogno di un uomo ridicolo del 1877 e I fratelli Karamazov, di due anni dopo), pare appropriato ad esplicitare l’attitudine con la quale ci accingiamo ad appuntare alcune insufficienti note su pro e contra dostoevskij, allestito da Archivio Zeta al Cimitero militare germanico Futa Pass nell’estate 2019.

Nell’impossibilità di analizzare con la dovuta profondità la messe di elementi che compongono questa commovente (sia in senso comune che etimologico) esperienza teatrale, ci limiteremo ad alcuni accenni relativi al rapporto con il paesaggio -e, per estensione, con il mondo- che pro e contra dostoevskij istituisce.

 

 

Il progetto è stato proposto in occasione del cinquantesimo anniversario dell’inaugurazione del Cimitero Militare Germanico del Passo della Futa, nei monti tra l’Emilia e la Toscana: luogo di surreale, feroce fascino in cui sono seppelliti più di 30.000 giovani soldati tedeschi che furono mandati a combattere sulla Linea Gotica e che da sedici anni costituisce il Teatro di Marte (per dirla con il titolo del primo volume del recente progetto editoriale curato dall’ensemble) che con pervicace entusiasmo Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni -e la comunità umana da loro raccolta- abitano e fanno attraversare ogni estate a diverse centinaia  di persone di ogni tipo (il solito pubblico degli appassionati di teatro, certo, ma anche coppie di anziani, famiglie con bambini, gruppi di giovani, signore di mezza età) che attraversano in automobile valli e montagne per farsi parte. Per esserci.

Il primo felice paradosso artistico di Archivio Zeta è tradurre una tale smisurata impresa, nonché la loro ferma volontà di proporre «testi di grande respiro», con dispositivi rigorosamente minimali nelle immagini e nelle prospettive lineari che offrono al manipolo dei guardanti.

 

 

Costumi perlopiù monocromi, materiali naturali, un rispetto sacrale per la geometria, che come è noto è l’Arte di misurare la terra, a proporre una forma riveduta e personalissima -sembra lecito sintetizzare- di ciò che Leo de Berardinis nel 1999, nello stesso anno in cui Archivio Zeta nasceva, chiamò «teatro popolare di ricerca».

Un dire epico e meditabondo, dilatato e filosofeggiante, terrigno e sapienziale che si incarna in partiture fisiche e coreografiche stilizzate, costruendo nello spettatore visioni che originano nel pensiero cinematografico: ci sono Il settimo sigillo di Bergman e Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, in pro e contra dostoevskij, campi lunghi e primi piani, così come il Cine-occhio di Vertov ed il Montaggio delle attrazioni di Ėjzenštejn in ciò che vi è (neanche troppo) dietro.

 

 

Altro elemento evidente è il riferimento ad autori e opere della storia dell’arte visiva: Caravaggio, Friedrich, il Rosso Fiorentino in ciò che è dato a vedere, alcuni esponenti delle Avanguardie e delle Neoavanguardie (come non pensare, a mo’ di sineddoche, a Rovesciare i propri occhi di Giuseppe Penone del 1970?) in ciò che vi è (immediatamente) dietro.

Tutto questo -e tanto, tanto altro che non trova posto in queste poche righe- è offerto allo spettatore dalla comunità di Archivio Zeta (Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni, appunto, ma anche i loro giovani figli, altri parenti, un anziano del luogo che da molti anni lavora con loro, alcuni attori) senza compiaciuti intellettualismi ma, al contrario, con la schietta, solida, finanche utile concretezza dei montanari.

 

 

«Mondo che guarda il mondo», direbbe Calvino.

Traiettorie (leggi: persone, progetti) che stanno molto vicino alle cose, con salvifica attitudine fenomenologica, là dove per cose si intende -e si considera- una musica tanto quanto un’asse di legno, un brano letterario così come una sedia.

È forse per questo che molti continuano a compiere con gratitudine questo (paradossalmente) vitalissimo pellegrinaggio, a far visita a morti che non conoscono, a far vivere (ancora e ancora) tale peculiare seppur temporanea forma di comunità.

Archivio Zeta da sedici anni sta cercando (e condividendo con chi lo desidera) il genius loci di un teatro che si fa, etimologicamente, luogo dello sguardo, luogo della visione.

Dire grazie, almeno.

 

MICHELE PASCARELLA 

 

Visto il 14 settembre 2019 al Cimitero militare germanico Futa Pass (FI) – info: archiviozeta.eu