NID – New Italian Dance Platform. O della tradizione

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A dispetto del NEW che apre l’acronimo, le proposizioni da noi incontrate hanno presentato costituitivi, reiterati riferimenti a un passato più o meno remoto. E non c’è nulla di male, ça va sans dire.

«Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma»: il celeberrimo postulato di Antoine-Laurent de Lavoisier vale a ricordare, semmai ce ne fosse bisogno, che quello dell’originalità è un falso problema.

È uno dei tanti vizi della cultura occidentale -moderna e post- il ritenere, più o meno consapevolmente, che ciò che è nuovo sia per forza di cose migliore di ciò che non lo è o, allargando lo sguardo, che qualcosa che viene dopo sia senz’altro più evoluto di altro che lo ha preceduto.

Sgombrato il campo da questo ahinoi comune pre-giudizio, ci accingiamo a restituire alcune brevi note sulle proposizioni performative nelle quali ci siamo imbattuti alla quinta edizione della NID – New Italian Dance Platform: una sorta di “fiera di settore”, sia detto per i non addetti ai lavori (che in quanto tali con buona probabilità non erano presenti alle affollatissime giornate reggiane, essendo la presenza di “pubblico vero” del tutto residuale), destinata a promuovere la danza contemporanea italiana in Italia e nel mondo.

Molte le istituzioni promotrici e coinvolte, moltissimi gli artisti, gli operatori e i critici.

 

 

Della proteiforme, densissima programmazione noi siamo riusciti a vedere solamente gli spettacoli presentati da Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto, da Roberto Zappalà e da Nicola Galli: soggetti produttivi affatto difformi per dimensioni, età anagrafica e linguaggi i cui lavori però -ci pare di poter sintetizzare- hanno tutti molteplici, costitutivi riferimenti a tradizioni artistiche e culturali del passato.

La Fondazione Nazionale della Danza / Aterballetto ha proposto un trittico: nell’ordine due coreografie di Saul Daniele Ardillo e una di Philippe Kratz.

 

 

In Lost in cinque danzatori agiscono in uno spazio scenico delimitato da grandi mappe topografiche in bianco e nero: con attitudine propriamente romantica danno corpo a una danza espressiva che asseconda -e a tratti illustra- l’andamento ritmico e tonico della musica (in questo caso un’alternanza di celeberrime composizioni chopiniane e frammenti elettronico-percussivi), a comporre una coreografia puntellata di sincroni, rotazioni e slanci degli arti, alla ricerca di «una nuova forma innestata sull’antica».

 

 

La stella nascosta, produzione di danza per ragazzi della quale sono stati mostrati 20 minuti (sui 45 della durata totale) dà corpo a un immaginario che si muove tra ballet d’action e danza pantomima, con il correttivo -a favore di ulteriore, massima chiarezza- di testi esplicativi e tesi a coinvolgere il giovane uditorio. La coreografia articola una sequenza di passaggi programmaticamente espressivi, a (ri)proporre un  sistema di segni e tipi massimamente riconoscibili dai più: uomini prestanti, donne velate di tessuti semitrasparenti ad allungarsi verso un indefinito altrove, tra esperienza concreta e mondo ultraterreno. I materiali presentati, certo bisognosi di ulteriore rodaggio, incarnano una concezione tardo-ottocentesca di arte come espressione di sentimenti e passioni. Al di là di possibili, prevedibili migliorie, vien fatto di domandarsi quale sia l’obiettivo pedagogico -in termini di condensazione, (rap)presentazione e problematizzazione della complessità del reale- che La stella nascosta si pone.

 

 

Philippe Kratz, del quale anni fa avevamo ammirato la puntuale esecuzione dello storico E-ink di Michele Di Stefano -dodici indimenticabili minuti ri-allestiti nell’ambito del meritorio progetto RIC.CI curato da Marinella Guatterini- per l’identica minimale durata propone un duetto nel quale è in scena con la danzatrice Ivana Mastroviti. Vien da pensare ai Maestri innovatori della scena di inizio Novecento per i quali il corpo costituiva -fenomenologicamente- la scaturigine e al contempo la destinazione del fatto artistico: non mero veicolo di un più o meno definibile altro, valoriale, narrativo o sentimentale che fosse. Ci sono gioia e gioco, in questi sincroni ritmati intrisi di segmentate, elastiche invenzioni: c’è aria di rivoluzione.

 

 

Roberto Zappalà presenta una sua storica partitura che giustappone corpi, energie ed immaginari di sette aitanti danzatori a una figura femminile che da questi si lascia manipolare, sollevare, disporre, finanche appendere. A.semu tutti devoti tutti?, dedicato alla Santa patrona della città di Catania, gioca esplicitamente e vigorosamente con tradizioni e folclore, stereotipi e cliché al contempo incarnando una idea classica di artista, inteso come qualcuno che possiede una téchne, una perizia che lo distingue dal non-artista: sono prova di notevole atletismo i numerosi salti di cui lo spettacolo è intessuto, così come di dimostrativa, estroflessa mascolinità la partitura di spinte e colpi che gli interpreti senza posa si (auto)infliggono.  Nel finale, Esopo docet, lo stesso coreografo entra in scena e legge un testo evocante i danni del sistema mafioso, a dar voce a un’idea classica secondo la quale l’esplicita vicinanza al reale è indice di artisticità: «bello come imitazione della natura», si scriveva nel Settecento.

 

 

All’entrata della sala in cui è stato presentato De rerum natura di Nicola Galli è a disposizione un denso libretto di presentazione che intreccia Lucrezio ad Anassimandro, Newton ad Einstein: come non ricordare alcune sperimentazioni post-weberniane di metà Novecento nelle quali la teoria -o meglio “l’atto di pensiero”- non era solo “spiegazione” dell’opera, costituendone piuttosto una cospicua parte integrante? La struttura di questo De rerum natura muove da un organicismo primitivista e originario, con le Figure atte a nascere/scoprire agendo a terra su un tappeto di suoni acquatici/elettronici, alla conquista della posizione eretta ad articolare una coreografia (omaggio alla celeberrima Son of Gone Fishin’ di Trisha Brown?), nella quale sei giovani e dediti danzatori eseguono una complicatissima partitura costituita da flussi e riflussi creando, con geometrica morbidezza, un insieme fluido e al contempo claustrofobico. Dopo alcuni passaggi in cerchio evocanti (a nostro modo di vedere) le sperimentazioni coreutiche labaniane a Monte Verità, il dispositivo costruito da Galli ritorna all’informe iniziale mostrando il proprio artificio, o meglio la propria lingua: fondale e americane calano a mezz’aria, su  musica tellurica e vibratile lo spazio scenico viene riempito di fumo, le luci si abbassano, nella semioscurità di stagliano alcuni parallelepipedi emananti una luce bianchissima, a comporre forme e simbologie: come non pensare al Minimalismo di Morris e Judd, di Andre e Flavin?

 

 

«La tradizione è custodia del fuoco, non culto delle ceneri», direbbe Gustav Mahler: la scena coreutica contemporanea dovrebbe sempre ricordarlo. 

 

MICHELE PASCARELLA

 

Visto a Reggio Emilia nel mese di ottobre 2019 – info: nidplatform.it