Tre donne eccezionali, a Contemporanea

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Jukebox - foto di Ilaria Costanzo

 

Chiara Lagani, Monica Demuru e Phia Mènard: diversissime, folgoranti forme di una vibrante zoé, femminile e selvaggia, incontrata alla diciannovesima edizione del Festival di Prato.

Il mondo salvato dalle donne, si potrebbe dire parafrasando Elsa Morante.

Se questo par vero per le nostre vite, lo è certamente anche per le molte, a volte inaspettate trasduzioni che ne fa la pratica scenica contemporanea.

Ne abbiamo avuto un (ennesimo) esempio a Prato, nei giorni scorsi, in occasione della diciannovesima edizione di Contemporanea Festival.

Tra le numerose proposizioni incontrate in due densissime giornate, desideriamo ora scrivere qualche riga attorno a tre accadimenti (non usiamo intenzionalmente la parola spettacoli) a cura di Chiara Lagani, Monica Demuru e Phia Mènard, in una progressione che, per quanto ci riguarda, va dal noto all’ignoto.

 

L’invenzione occasionale – foto di Ilaria Costanzo

 

Nell’ambito di Alveare, sezione interamente al femminile della programmazione di quest’anno, Chiara Lagani ha presentato insieme a Tiziana de Rogatis L’invenzione occasionale, recentissimo volume di Elena Ferrante.

Crediamo necessario riportare per intero l’introduzione della stessa Chiara Lagani a questo incontro, presente nei materiali di comunicazione di Contemporanea: «Mi è stato chiesto, dalla direzione del Festival, di comporre un’azione, gesto o pensiero per la sezione Alveare dell’edizione di quest’anno, che ospita tutte artiste donne, eleggendo in qualche modo a tema questa particolare scelta sul femminile, ma in una maniera libera senza farne alcun obbligo di trattazione specifica. Ho ugualmente deciso di addentrarmi per la prima volta frontalmente in un terreno che ho sempre avvertito come delicato, talora per me scivoloso, ma fortissimo, quello del pensiero delle donne e sulle donne. Lo voglio fare attraverso un’autrice che è stata molto importante nel mio percorso degli ultimi anni, Elena Ferrante, e con la complicità di una delle migliori voci critiche, sempre credo e non a caso una donna, che ho avuto la fortuna di incontrare durante gli anni di studio dei quattro libri dell’Amica geniale. Ferrante è un’autrice potente, sempre spiazzante e mai scontata per i lampi di viva luce che sa gettare sugli argomenti più fondi, accendendo grosse rivoluzioni interiori in chi legge. Il recente L’invenzione occasionale raccoglie i pezzi che sono usciti per un anno settimanalmente su The Guardian a firma dell’autrice. A partire da alcune di quelle pagine, con l’aiuto fondamentale di Tiziana de Rogatis, cercherò di attraversare alcuni dei suoi temi, capaci di “ripensare l’immaginario femminile come uno splendido graffito ancora parzialmente sepolto. Oltre il denso strato dell’immaginario neo-patriarcale, della retorica dell’emancipazione o dei buoni sentimenti: da lì si sprigiona L’invenzione occasionale” (Tiziana de Rogatis, dal risvolto di copertina del libro)».

Al di là dell’interesse che il testo in oggetto presenta, ciò che vale in questa sede ricordare sono forse due aspetti.

Il primo: la significativa, crescente affezione di alcune autorevoli donne di scena del panorama nazionale contemporaneo per l’opera letteraria di autrici coeve, a cui ritornano in diverse occasioni con attitudini estroflesse, finanche divulgative (basti citare, a mo’ di sineddoche, una delle protagoniste di un altro appuntamento di Alveare, Daria Deflorian, nel suo pluriennale attraversamento della scrittura di Annie Ernaux). Lungi da noi tentare di spiegare, o peggio esaurire, questo accadimento: è certo un fenomeno da continuare a osservare con attenzione, cura e discrezione.

Secondo aspetto: attenzione, cura e discrezione sono, analogamente e sideralmente, quelli che Chiara Lagani pone nella scelta delle parole con cui presenta, seduta a fianco di Tiziana de Rogatis, questi testi ed il lavorio, scenico e intellettuale, che da essi origina. In un’epoca di sciatterie, disillusioni e banalizzazioni  incipienti (quanti artisti ne fanno la propria “cifra stilistica” se non addirittura il proprio vessillo, oggidì), trovarsi di fronte a un tale semplice e al contempo rigoroso rispetto per il materiale con cui si lavora (in questo caso: le parole) è stata in tutto e per tutto una esperienza: Chiara Lagani e Tiziana de Rogatis ci hanno fatto muovere con loro, approssimandoci a testi e tematiche a noi non particolarmente noti né cari, con colta, appassionata sapienza. Chapeau.

 

Jukebox – foto di Ilaria Costanzo

 

Monica Demuru ha dato corpo e soprattutto voce a Jukebox, una delle molte diverse manifestazioni del visionario progetto internazionale L’Encyclopédie de la Parole, avviatosi nel 2007 allo scopo di esplorare la lingua parlata in tutte le sue forme, collezionando registrazioni di parole e indicizzandole secondo diverse proprietà (cadenza, enfasi, melodia, ecc). L’Encyclopédie de la Parole, oltre a sessioni d’ascolto, drammi sonori, laboratori e progetti radiofonici realizza accadimenti performativi nei quali vengono riprodotte fedelmente una successione di voci di varia provenienza. Cinque anni fa avemmo occasione, a Santarcangelo Festival, di incontrare per la prima volta questo progetto: in Suite chorale N°1 “ABC” si susseguivano una quarantina di estratti, eseguiti in undici lingue da ventidue artisti (undici attori e undici ospiti locali).

In Jukebox, nomen omen, gli spettatori vengono forniti di un menù/lista dei documenti sonori tra cui scegliere, chiedendo alla performer di eseguirli.

L’elenco delle possibilità comprende la lallazione di un infante e un discorso d’addio, un messaggio vocale su WhatsApp e una conversazione in treno, le indicazioni di regia sul set di un film pornografico e un consulto medico. E tanto, tanto, tanto altro.

«Jukebox è un pezzo unico progettato per un unico spazio geografico: una città. Ogni versione, composta in stretta collaborazione con un team locale di ricercatori, un attore e un drammaturgo, ha lo scopo di condividere i metodi e i processi de L’Encyclopédie de la Parole e di eseguire le singole forme di discorso sostenute da specifici contesti culturali e geografici: “Se vivo a Roma, Prato o Cagliari, quali sono i diversi discorsi che mi attraversano in un dato giorno?”»: un vero e proprio site-specific, dunque.

Monica Demuru dà corpo e soprattutto voce, si diceva in apertura, a testi “messi in partitura”, con il movimento a far da base e trampolino alle manifestazioni vocaliche, e un’attitudine di servizio a ciò che la voce va creando affatto distante dalla mera esibizione di téchne fine a sé stessa.

L’attrice e cantante dà prova di magistrale istrionismo o, meglio, di camaleontismo: davanti ai nostri occhi, o più esattamente dentro le nostre orecchie, questa donna piccola e potente diventa l’infante, il viaggiatore, il regista, il medico e tutte le altre Figure che via via affiorano. Ciò non faccia pensare a immedesimazioni di marca psicologica: coerentemente allo spirito del progetto complessivo, sono solide maschere vocaliche, pure forme sonore in movimento, quelle che ci vengono offerte. La giustapposizione di “pezzi di mondo” tanto diversi li decontestualizza e risignifica, rimodulandoli in sorta di objets trouvés, sonori ed esperienziali, scevri da qualsivoglia psicologismo.

Questo “teatro d’ascolto” ricorda la celeberrima 4’33’’ di John Cage: progettare un’opera che ontologicamente accolga i suoni del mondo, a ibridare sistemi di pensiero occidentali e orientali, la fenomenologia e lo zen.

Il risultato è ritmato, prismatico, e molto divertente. Ma è anche inaspettatamente commovente, nel senso (etimologico) che ci fa “spostare con” la moltitudine di fenomeni che attraversano le nostre orecchie. E assomigliare, almeno un po’, agli angeli de Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders: in ascolto delle molte voci del mondo.

Fuori da noi, finalmente.

 

Contes Immoraux – Partie 1: Maison Mère – foto di Jean-Luc Beaujault

 

Uno degli aspetti interessanti nel frequentare un Festival vivace e ricco quale è Contemporanea è avere la possibilità di imbattersi fortuitamente in modi di pensare la scena, e quello che dentro e attorno vi accade, decisamente altri rispetto a ciò che già si è esperito.

Questo è quanto avvenuto con Contes Immoraux – Partie 1: Maison Mère di e con Phia Mènard.

Dall’aspetto evocante la leader di una punk-rock band anni Ottanta -con florilegio di pizzi, borchie e cuoio, capelli arruffati e trucco pesante- Phia Mènard perimetra con vigorose e al contempo macilente falcate l’imponente spazio scenico, interamente occupato da grandi sagome di spesso cartone stese a terra.

Nel silenzio l’unico suono, amplificato da un sistema di microfoni a bordo palco, è quello dei suoi passi pesanti.

Con esasperante lentezza, armata di un bastone appuntito e grossi rotoli di nastro adesivo, faticosamente e bruscamente costruisce davanti ai nostri occhi una monumentale casa di cartone.

Con una motosega ne ritaglia le pareti, fino a trovarsi all’interno di luogo a metà fra un Partenone e una gabbia.

Finito il lavoro, la performer va a sedersi in un angolo del palcoscenico.

Un sistema di tubi idraulici posti sopra la casa inizia a far cadere una via via più scrosciante pioggia, che progressivamente intride il cartone fino a farlo tracollare.

Ogni suono (la “pioggia”, i crolli) è amplificato e in parte trattato con echi. Dall’alto giunge anche uno spesso fumo bianco, a riempire lo spazio scenico e, in parte, la platea.

Davanti ai nostri occhi accade, letteralmente, un’Apocalisse, la cui etimologia com’è noto rimanda a catastrofe ma anche a rivelazione.

Cosa rivela questa performance commissionata a Phia Mènard due anni or sono da uno dei templi dell’arte contemporanea mondiale, dOCUMENTA di Kassel?

Al di là delle letture che ciascuno può dare (ben lontana da noi la pretesa di spiegare cosa un’opera possa significare), certamente Contes Immoraux – Partie 1: Maison Mère si inscrive in una Storia dell’arte che, attraversando Avanguardie Storiche e Neoavanguardie (come non pensare, per rimanere sul femminile selvaggio, ai segni anti-graziosi tracciati da Hannah Höch ormai un secolo fa o alla Process Art di Eva Hesse, cinquant’anni dopo?) pone al centro le possibilità propriamente estetiche (dunque esperienziali, dunque conoscitive) dell’opera.

Non opera d’arte, ma opera dell’arte, ancora e ancora.

 

foto di Ilaria Costanzo

 

Grazie a Contemporanea Festival 2019 per queste inedite, indomite visioni.

Grazie per l’invito e la cura a Cristina Roncucci, ufficio stampa che molto tiene e contiene.

 

MICHELE PASCARELLA

 

viste il 27 e 28 settembre 2019 a Prato – info: metastasio.it