L’ufficiale e la spia (J’accuse), di Roman Polansky

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Le prime immagini del film ci mostrano una grande ed elegante piazza in una grigia giornata invernale. Ufficiali e soldati dell’esercito sono impegnati, con tutta la solennità e la pomposità che si deve ad un grande evento, nella rappresentazione di un rito: la pubblica degradazione di un giovane ufficiale, condannato con la peggiore delle accuse, quella di alto tradimento, per avere ceduto informazioni miliari al paese nemico. I gradi gli sono strappati dalla divisa, la spada di ordinanza è spezzata e ad attenderlo è una lunga detenzione nella colonia penale, in una sperduta isola in mezzo all’oceano, l’Isola del Diavolo. Attorno alla piazza il popolo assiste, soddisfatto. Siamo a Parigi, il 5 gennaio del 1895. Ad essere destituito è il capitano di origine ebraica Alfred Dreyfus (Louis Garrel). La Francia è uscita umiliata dalla sconfitta nella guerra franco-prussiana del 1971 (che ha causato la perdita dell’Alsazia e della Lorena) ed è lacerata da conflitti politici e sociali. Il popolo francese sembra ora ritrovare una propria unità, contro chi ha messo in pericolo la sua sicurezza. Un ebreo. Ma anche contro tutti gli altri come lui. Gli ebrei. Una minoranza che, secondo l’opinione dei più, con modi subdoli si è insinuata all’interno della nazione francese, minando la sua integrità, indebolendola, e della quale è bene diffidare. E verso cui monta un clima di crescente ostilità, alimentato da politicanti senza scrupoli. L’antropologia filosofica con René Girard ci ha spiegato come, fin dalla notte dei tempi, i gruppi sociali in crisi ritrovino le basi del proprio legame attorno al capro espiatorio, un individuo o una particolare minoranza, connotati da qualche elemento di diversità, verso la quale canalizzare la spirale di odio e violenza, fino al sacrificio salvifico. Perché la comunità non riesce a trovare accordo se non contro qualcuno o qualcosa.

L’Affaire Dreyfus è stato oggetto di tantissime messe in scena per il cinema e la televisione, la prima ad opera dei fratelli Méliès già nel 1899, a fatti ancora in corso. Prendendo spunto dal romanzo storico di Robert Harris (anche cosceneggiatore del film), Polansky racconta questa vicenda, con grande accuratezza filologica, da un punto di vista insolito. Quello del colonnello Georges Picquart (Jean Dujardin). Anch’egli è presente in quella piazza e nei giorni successivi alla destituzione verrà nominato al vertice del controspionaggio militare, al posto dell’ufficiale che aveva guidato le indagini contro Dreyfus. Il film rievoca un episodio di quando Dreyfus era stato un suo allievo alla scuola per ufficiali: quest’ultimo gli chiese se i giudizi non lusinghieri che gli aveva attribuito fossero condizionati dalla sua origine ebraica; Picquart gli rispose con franchezza di condividere certe idee (i pregiudizi antisemiti diffusi nella società), ma che questi non avevano in alcun modo influito sul suo lavoro.

Con la stessa inflessibilità e correttezza egli adempie al suo nuovo incarico. Ben presto si rende conto della conduzione approssimativa e fortemente faziosa delle indagini contro Dreyfus svolte dai suoi predecessori e quando arriverà a scoprire il vero colpevole delle azioni di spionaggio a favore dei tedeschi, non esiterà a intraprendere le iniziative dirette ad ottenere la riabilitazione dell’ufficiale condannato, anche a costo di scontrarsi apertamente contro le gerarchie militari ed il potere politico (e contro la stessa opinione pubblica prevalente), che vorrebbero comunque considerare definitivamente chiuso il caso.

Il punto di forza del film è la minuziosa e dettagliatissima ricostruzione delle tecniche di indagine dell’epoca, ma soprattutto dei contesti che vedono la costruzione ufficiale di verità basate sulla falsificazione dei fatti e dei documenti, vere fake-news ante litteram. Al centro di tutto è il palazzo sede del controspionaggio militare, che Picquart è chiamato a dirigere. Un luogo sinistro, che ci fa pensare alle grottesche ambientazioni dei romanzi di Kafka. Sporco, polveroso, in lento e inesorabile disfacimento, un labirinto di archivi in cui è impossibile orientarsi, abitato per lo più da personaggi inaffidabili e laidi, servili e compiacenti verso il potere, un potere chiuso e impenetrabile, che gelosamente custodisce il segreto sui propri misfatti. Qui la verità è semplicemente ciò che è più utile (o si pensa lo sia) al potere per rafforzarsi. Un abisso senza fondo dal quale Picquart riuscirà a risollevarsi solo grazie alla sua tenacia e all’aiuto della stampa e di una parte dell’opinione pubblica (a partire dal celebre J’accuse di Émile Zola).

Visto alla Mostra del Cinema di Venezia, dove il film ha ricevuto il Premio speciale della giuria.

di Dario Zanuso e Aldo Zoppo