Per Liliana Segre. A Venezia

0
612

 

Il debutto nazionale dello spettacolo Fino a quando la mia stella brillerà, dedicato a Liliana Segre, regala l’occasione per incontrare il vivacissimo Teatrino Groggia di Venezia. Tre domande al regista Lorenzo Maragoni e tre al direttore artistico Mattia Berto.

 

Lorenzo, dal punto di vista registico quali accorgimenti scenici hai adottato per far incontrare il giovanissimo pubblico a cui il vostro spettacolo è dedicato con una vicenda umana tanto complessa? 

Lavorando su un monologo, credo che il compito principale del regista sia di favorire l’incontro tra attrice o attore e pubblico. In questo caso, l’ottimo lavoro drammaturgico di Daniela Palumbo e il grande talento di Margherita Mannino hanno fatto e faranno il novanta per cento dello spettacolo. Da parte mia, ho cercato di contribuire a costruire le due relazioni dell’attrice in scena: quella con un’immaginaria (ma fisicamente presente) scatola dei ricordi di Liliana Segre, e quella con il pubblico. Abbiamo lavorato sull’empatia, sull’accoglienza, sul ritmo: come invitare il giovane spettatore o spettatrice a fidarsi dello spettacolo al punto di affidare ad esso la sua attenzione, per poi condurlo, attraverso accorgimenti piccoli e precisi (gli oggetti contenuti nella scatola, il lavoro sul corpo, un modo informale e aperto di stare in scena) lungo un percorso di scoperta della storia di Liliana Segre, con delicatezza e rispetto.

 

foto di Francesco Wolf

 

Cosa risponderesti a Sting che canta History Will Teach Us Nothing?

Non conoscevo la canzone, sono andato ad ascoltarla ed è stata una interessante scoperta, con molte risonanze con il nostro lavoro. Margherita ed io crediamo che una società debba da un lato agire nella prevenzione e nella gestione dell’emergenza, attraverso strumenti politici e sociali, per evitare l’accadere di fenomeni di emarginazione, discriminazione, violenza, e violazione dei diritti umani. Dall’altro c’è un lavoro più profondo, sotterraneo, lento, dei cui risultati non necessariamente saremo testimoni: è il lavoro culturale, che attraverso la scuola, la famiglia, la comunità, l’arte, e, ci piace pensare, il teatro, ci potrà far evolvere come società verso una sempre maggiore inclusione, accoglienza, valorizzazione e rispetto della diversità. Un verso della canzone che troviamo particolarmente significativo è «Without the voice of reason every faith is its own curse», traduco approssimativamente «Senza la voce della ragione, ogni fede diventa la sua propria maledizione». Un invito a confontarsi criticamente con ogni pensiero, incluso il nostro: cosa mi viene detto? Da chi? Cosa c’entra con me? Come si mette in relazione con le mie sensazioni, le mie idee, i miei valori? Cosa ne posso fare?

Dato un tema così tagliente e schierato è possibile concepire un’opera scenica come una domanda aperta, e non come veicolazione didattica di messaggi o convincimenti morali (ancorché pienamente condivisibili)? Detto altrimenti: come si può evitare di fare uno spettacolo “a tesi”?

Questa è la domanda principale che ci siamo fatti durante tutto il processo. Sarebbe bello riportare il contenuto delle lunghe conversazioni avute con Margherita su questo tema, che hanno portato ad alcune scelte importanti di regia e di interpretazione in alcune parti del testo. Siamo completamente d’accordo con l’idea che il teatro debba porre domande aperte, possibilmente chiare e ben formulate, che lascino lo spettatore libero di formarsi un suo punto di vista. Superato il limite del palco, la singola domanda si frammenta in decine di domande individuali incrociando i corpi e i cuori degli spettatori: lì il nostro lavoro finisce, e comincia il lavoro dello sviluppo individuale e sociale dentro la vita, che potremmo chiamare impatto dello spettacolo. È possibile fare questo senza che lo spettacolo a sua volta prenda posizione? È auspicabile? Dov’è il confine tra una sorta di “neutralità” e la possibile “imposizione” di un punto di vista? Credo che per questo spettacolo sia importante che noi come artisti prendiamo una posizione etica, senza darla per scontata. Ma se non vogliamo fare uno spettacolo in cui semplicemente “sentirci buoni di fronte ai cattivi”, dove si nascondono le domande? E quali di queste può essere utile che si pongano spettatori preadolescenti e adolescenti? Forse quelle relative al come ci si approccia alla memoria stessa, al come si ascolta una storia che in alcuni momenti sarà terribile ascoltare: perché è terribile che sia accaduta. Eppure questa difficoltà e complessità va affrontata, per sentirci a pieno titolo parte del mondo in cui viviamo, e eredi della nostra memoria, per continuare a riconoscerci ed alimentare i valori condivisi di progresso, pace, diritti umani. Forse, come dice Margherita/Daniela/Liliana nello spettacolo: l’inizio è nel coraggio di chiedersi “perché”. Attraverso il lavoro in scena un’attrice libera davanti a spettatori liberi -giovani, ma pronti ad iniziare a costruire la propria identità di cittadini italiani, di cittadini europei- cerchiamo di dare il nostro piccolo contributo a questo processo.

 

Teatrino Groggia, Venezia

 

Mattia, la costruzione di Fino a quando la mia stella brillerà si è conclusa durante una residenza artistica presso il vostro spazio veneziano. Puoi raccontare a favore di chi non lo conosce (o più in generale di chi è al di fuori delle dinamiche produttive ed economiche del sistema dello spettacolo dal vivo nel nostro Paese), come si finanzia il vostro Teatro e in quali tipologie di attività investe I fondi disponibili?

La nostra avventura al teatrino Groggia inizia nel 2012, e fin da subito ha preso la forma di un processo di riattivazione e di ricostruzione partecipata e democratica in ambito performativo, culturale e sociale. Il teatrino, che era chiuso da qualche tempo, ha ritrovato una sua identità grazie al lavoro di una squadra di addetti ai lavori del territorio, artisti, registi e attori, ma anche istituzioni e soprattutto cittadini, che sono stati e sono ancora il motore principale di questo processo. In un momento storico come quello presente, caratterizzato da una profonda crisi economica e del pensiero, credo che l’unico modo per generare nuove forme di sostenibilità culturale sia di mettere in relazione diversi soggetti, di creare sinergie tra le persone che contribuiscono all’arrichimento di un luogo in cui si riconoscono. Così, il teatrino Groggia è diventato immediatamente una “casa”, abitata in modo trasversale da tutte le generazioni che il teatro lo seguono, lo sostengono, lo fanno, ma che soprattutto lo amano. In questi anni il nostro progetto si è retto in gran parte sulla volontà e l’energia di coloro che continuano a dare la loro professionalità e il loro tempo per sostenere un’idea condivisa di cultura e di città.  Questo accade a maggior ragione in un luogo fragile e complesso come Venezia, che sta vivendo una profonda trasformazione. Per noi fare teatro qui significa resistere, creare una nuova forma di resilienza attiva. Il complesso del Groggia è di proprietà del Comune di Venezia, che nel corso degli anni ha creduto nella nostra idea e ha contribuito economicamente al nostro processo di crescita. Ma oltre al Comune, anche molte realtà del territorio che operano in campo culturale e sociale hanno partecipato alle nostre iniziative con le loro proposte, e hanno animato ancora di più la nostra “casa”. Da nove stagioni il teatrino offre ad un pubblico piuttosto eterogeneo un cartellone di spettacoli che spaziano attraverso esperienze consolidate o emergenti, dal teatro d’avanguardia al teatro ragazzi, ma anche laboratori teatrali per bambini e adulti, residenze artistiche e d’attore, eventi musicali, progetti contaminati con il mondo delle arti visive e attività più legate al sociale, ma sempre con l’intento di dare spazio a tutte quelle realtà in emergenza che, come noi, sperimentano, cercano, lavorano dal basso senza perdere in qualità.

Il vostro lavoro è fortemente caratterizzato dall’aspetto inclusivo: coinvolgete in molte proposte sia performative che laboratoriali persone di diverse età e condizioni di vita. Data la tua pluriennale esperienza ritieni che il beneficio che esse ricavano da tali attività sia misurabile? Se sì: mediante quali strumenti?

Mi piace pensare ad un teatro che porta in scena tutti indistintamente, bambini, ragazzi, adulti, ma anche anziani, diversamente abili e normodotati, professionisti e neofiti, reclusi in strutture protette o individui liberi. Mi piace pensare ad un palcoscenico che vede ciclicamente tutti protagonisti, un po’ come accade nella vita. È questa passione che ho per la vita in tutte le sue pieghe, in tutte le sue sfumature, che mi spinge a costruire una progettualità inclusiva e trasversale. Non a caso ho portato il mio Teatro di Cittadinanza nelle carceri, nelle botteghe storiche, negli hotel e nelle case private, ma anche nelle piazze e sulla strada. Il teatro è un’incredibile e potente tramite per aggregare, e per curare lo spirito e il corpo. Mi piace agire con le persone e per le persone, in uno scambio reciproco che fa stare bene tutti, me compreso. Non saprei misurare esattamente i benefici di questo fare condiviso, ma posso dirti che in questi anni intorno al nostro teatro si è creata una vera e propria comunità forte e coesa, di cui questa città disgregata ha ancora un infinito bisogno.

 

Liliana Segre

 

In base a quali principi stilistici ed estetici costruisci la programmazione degli spettacoli presenti nel vostro Cartellone? Come li scegli, insomma? 

In linea di massima tendiamo a invitare sul nostro palcoscenico giovani professionisti, non solo provenienti dal nostro territorio ma anche dal resto d’Italia e talvolta anche dall’estero. Naturalmente la nostra programmazione coinvolge anche spettacoli di compagnie conosciute, ma le caratteristiche fisiche del nostro teatro lo rendono perfetto per spettacoli che prevedono un rapporto tra attore e spettatore più ravvicinato e intimo. Il Groggia si configura come spazio privilgeiato per i monologhi, come quello dedicato a Liliana Segre, ma anche per soli di danza, rappresentazioni teatrali per i piccoli, ecc. Il filo conduttore che guida la scelta è comunque ben chiaro da sempre: trattare temi importanti e attuali per portare il pubblico a riflettere sulle questioni del nostro tempo. Su questa linea abbiamo programmato il cartellone della stagione 2019/2020, che inauguerà a fine novembre, e che vede il lavoro di Lorenzo Maragoni e Margherita Mannino come anteprima significativa e preziosa.

 

MICHELE PASCARELLA

 

info: mpgcultura.it