Robert Lepage e io. Intervista a Anna Maria Monteverdi

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Una conversazione con la storica del teatro che ha dedicato all’autore del Québec due decenni di studi e pubblicazioni. E che ora cura, a Milano, una mostra a lui dedicata, con le fotografie di Marzio Emilio Villa.

 

Da ormai vent’anni riservi un’appassionata attività di studio a Robert Lepage. Ci racconti la tua prima folgorazione?

Fu in Svizzera, in occasione di un suo spettacolo, nel 2000: avevo deciso di dedicare a lui la mia ricerca di dottorato e rimasi folgorata. Mi intrufolai nel camerino timidamente, chiedendo se potevo fare un’intervista e lui, molto tranquillamente, mi disse che potevamo vederci la mattina dopo. Volevo andare in Québec a studiare i suoi archivi e a seguire un suo lavoro e lui accettò. Stava preparando La face cachée de la lune, che avrebbe debuttato al Festival des Ameriques a Montréal. Per me fu una vera iniziazione: ho seguito le ultime fasi di creazione, stavo con la Compagnia (provavano fino a notte fonda). Ancora non aveva adottato il sistema delle prove aperte agli uditori (come fa adesso) così ero l’unica persona esterna ammessa, per me fu un’esperienza esaltante! Ho conosciuto anche la sorella, Lynda Beaulieau, sua manager e oggi anche Presidente del Nuovo Teatro Le Diamant, appena inaugurato. Per un mese ho letteralmente “abitato” alla Caserne Dalhousie, dove mi avevano messo a disposizione un divano letto dentro agli archivi! Lì ho conosciuto una delle persone a cui sono ancora oggi legata da una vera amicizia e che ho rivisto poche settimane fa con la moglie spagnola: lo scenografo Carl Fillion, che mi ha concesso tutte le immagini preparatorie dei suoi lavori che sono state inserite nel mio libro Memoria maschera e macchina nel teatro di Lepage (Meltemi). Assistere alle prove dello spettacolo di Robert ha un sapore quasi mitico, di altri tempi: Robert improvvisa, fa in modo che ci siano degli “incidenti non previsti” in prova (un costume di scena che si strappa, un finto inciampo sui cavi) per rompere la tensione, così ci sono spesso risate generali, anche se la professionalità è ovviamente al primo posto. L’atmosfera è sempre molto rilassata. Robert si fida moltissimo dei tecnici, anche per una supervisione generale sul piano artistico. Tutti collaborano, anche uscendo dal proprio ruolo di lavoro. Da quel famoso primo incontro nel 2000 ho visto tutti gli spettacoli di Robert, vado ai pre-début: non sono la cosa più fantastica perché spesso sono in una fase di rodaggio, ma è in quel momento che io apprezzo di più il teatro di questo grande artista. Avendo studiando così tanto il suo processo creativo, quasi riesco a capire cosa toglierà e cosa manterrà. Ne parliamo spesso. Ho visto La face cachée de la lune nove volte: sono la “spettatrice ideale”, testimone oculare della lunga “vita” dello spettacolo. Ho amato tutte le sue produzioni, tranne forse quella dedicata a Frida Kalho: ma il progetto non era suo!

 

Marzio Emilio Villa, Il fiume San Lorenzo a Québec City

 

Non molto tempo fa sei tornata in Québec a incontrarlo. Tre cose che ti sei portata a casa, da quella giornata.

Il suo Teatro Le Diamant nel cuore della vecchia Québec è stato inaugurato da poco, con un remake da un suo storico allestimento dedicato a Hiroshima. La bella foto, molto spontanea, che mi ritrae con lui nel suo nuovo ufficio è specchio del nostro rapporto. Quindi mi sono portata a casa, per prima cosa, questa sensazione di bellezza, di amicizia, di un legame che il Teatro ha permesso e che si è fissato saldamente nel tempo. La seconda cosa che porto con me è la visione del pubblico giovane che durante le pause dello spettacolo al Diamant sedeva per terra dappertutto. L’edificio un tempo aveva ospitato un locale underground e Robert ha voluto mantenere proprio quello spirito di aggregazione. La terza cosa è l’immagine di Robert a cena, che crede di mangiare all’italiana ordinando prosciutto e melone al ristorante di Québec, ma poi chiede al cameriere di versarci sopra dell’olio. È il suo modo di reintepretare la cultura, un po’ come fa anche in teatro.

 

Marzio Emilio Villa, Giovane autoctona a Montréal

 

Stai curando un’esposizione fotografica, di Marzio Emilio Villa, che sarà inaugurata a Milano nell’ambito di Book City 2019 il prossimo 14 novembre. Cosa aggiunge, questo progetto espositivo, alla conoscenza di Lepage tua e del pubblico?

Robert dice sempre che tutte le sue storie parlano del Québec, ma pochi conoscono questi paesaggi, la cultura, le problematiche identitarie, i conflitti interlinguistici che poi sono alla base anche dello spettacolo Kanata. Nel suo teatro trovi immagini della Chinatown di Montréal, ritratti degli autoctoni che vivono in una dimensione molto complicata e per noi europei difficile da comprendere, infine la memoria storica e politica del Québec, che ha percorso in varie occasioni la strada del separatismo. Abbiamo preso la parola Québec (foneticamente si scrive Ke’bek) e abbiamo scoperto che significa “là dove il fiume si restringe” ed è una parola indiana; il fiume è il San Lorenzo e la sede della compagnia Ex Machina si affaccia proprio su questa fondamentale arteria di comunicazione, di mezzi e di popoli. Marzio Emilio Villa, fotografo italo-brasiliano che adesso sta esponendo alla Leica Gallery di Parigi, dove abita, si è lasciato ispirare dai miei racconti e ha scelto di offrire uno sguardo diverso, insolito, oltre il teatro. I suoi ritratti sono qualcosa di potente. A Castiglioncello, in occasione di Inequilibrio Festival dove abbiamo inaugurato la mostra, abbiamo avuto giudizi positivi del pubblico. A Robert l’idea della mostra è piaciuta moltissimo. Ha scritto una magnifica prefazione, che considero un regalo prezioso. È piaciuta anche alla Delegazione del Québec a Roma e alla società Natural Code, che ci hanno aiutato a produrla. La porteremo anche alla Spezia dal 7 marzo al 27 aprile, con il contributo delle Istituzioni culturali del Comune.

 

Marzio Emilio Villa, Giovani Autoctoni a Montréal

 

In generale, a tuo avviso, il crescente debordare del teatro in altre discipline, ibridandosi sempre più con lingue e medium diversi, è segno che esso, da solo, “non basta più”?

Non molto tempo fa sono stata a RomaEuropa, sezione Digital Live. Sono rimasta impressionata dallo spettacolo di danza e tecnologia del giapponese Iroaki Umeda programmato dalla direttrice Federica Patti: quella che era una “invenzione” tecnica sorprendente, il mapping dinamico su figura in movimento rapido, unita all’interattività e all’immersività audio-video, è stata per la prima volta applicata al teatro, con un senso drammaturgico molto forte. Ibridazione è termine che non amo usare per definire le produzioni di oggi, preferisco “composizione”, parola che restituisce al meglio il contributo di tutti i linguaggi (anche quelli delle tecnologie) a una creazione d’arte che ha un’anima doppia, ambivalente. Basta guardare il teatro-cinema di Katie Mitchell e Motus o il lavoro in Realtà Aumentata di Rimini Protokoll. Per quanto possiamo chiamare in causa le avanguardie, quello che sta accadendo oggi con le tecnologie è qualcosa di decisamente dirompente: fa saltare tutte le classificazioni teoriche precedenti. Rendo mio il concetto di software culture di Lev Manovich, perché mi sembra quello più appropriato: il software domina e regolamenta tutte queste produzioni tecnologiche, assumendo la funzione di co-regista.

 

Marzio Emilio Villa, Giovane con skate a Québec City

 

Per concludere, a favore dei non addetti ai lavori: con quale attitudine è consigliabile avvicinarsi all’opera di questo “uomo di teatro” che, appunto, non fa teatro come comunemente ci si potrebbe aspettare?

Io porto spesso con me a vedere gli spettacoli di Robert persone che non sono addette ai lavori e tutte ne sono entusiaste: non c’è bisogno di alcuna preparazione. Come mi spiegava Franco Quadri, la grandezza di Robert sta nella creazione di storie. Esse nascono prima sul palcoscenico che in forma di libro. Il livello scenografico è frutto di una continua rielaborazione, di un interplay costante tra parte tecnica e creativa: è una tessitura perfetta, che si determina quasi in totale naturalezza. Ed è il frutto della modalità assolutamente aperta di creazione di Robert, del suo voler lasciare sempre un ampio spazio  all’improvvisazione, anche quando lo spettacolo è “adulto”. Ciò che viene creato non a tavolino ma grazie a una spontaneità di questo tipo si percepisce, e raggiunge facilmente il pubblico. La tecnologia è di facilissima comprensione nei suoi spettacoli, perché si tratta fondamentalmente di immagini video, che vengono accolte di volta in volta in supporti e dispositivi scenografici diversi; fino a un po’ di tempo fa i proiettori e i cavi erano addirittura a vista: il meccanismo era svelato. Un’idea fissa di Robert: non ci deve essere, da parte del pubblico, un senso di frustrazione rispetto a una tecnologia che non comprende.

 

MICHELE PASCARELLA

 

Info: annamonteverdi.it