Una traccia dell’essere nella forma della carne. La danza Buto al Festival Testimonianze Ricerca Azioni

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Souls in the Sea di Tadashi Endo, foto di Lorenzo Crovetto

 

Nel programma della decima edizione del Festival organizzato da Teatro Akropolis e guidato da Clemente Tafuri e David Beronio, è stata dedicata una sezione alla danza Buto nella quale mi sono addentrata con grande senso di curiosità.

Venerdi 8 Novembre mi lascio condurre nei luoghi della sede del Teatro Akropolis che attraverso colma di misteriosa agitazione. Nella confusione della piccola folla di spettatori ancora poco quieti che si apprestano a prendere posto, la mia attenzione si rivolge verso il luogo della scena dove due umani silenziosi seduti uno accanto all’altro nella loro intimità, leggono dei libri dei quali vorrei ostinatamente conoscere il tema. Non mi è dato sapere cosa accade in quello spazio cosi vicino a me, ma cosi distante nella sua complessa semplicità ed eterea concretezza. Scorgo oggetti, alcuni simbolicamente dominanti: una croce, piccole stoffe, una scatola di legno. Il silenzio della scena mi distrae dalle mie congetture e mi trascina nell’azione di una manovale intenta a svestire un corpo inanime disteso di fronte a me…in pace. Il tempo corre lento ed io partecipo alla procedura con meticolosa accuratezza, affascinata dall’eleganza delle azioni e dal respiro preciso di ogni passo. Il corpo dell’uomo, ora nudo e ancora inerme, d’improvviso si anima di un flusso vitale extraterreno e piano si unisce alla sua manovale danzando con una estrema delicatezza.

Alessandro Bedosti e Antonella Oggiano ricreano nella scena il gioco (in tedesco Das Spiel, titolo della loro creazione), un incontro poetico tra vita e morte, un rituale intimo e senza tempo in cui la crudeltà della morte viene limata dalla cura con cui il corpo viene accompagnato in un luogo altro e pacifico, con la naturalezza di piccole azioni quotidiane come quelle che si ripetono durante la preparazione del defunto prima di lasciarlo andare.

[…] ma la mia proposta è un vuoto, una presenza che crea un vuoto, che non dice niente, non aggiunge niente. Un esserci che è un non esserci.

Cosi Alessandro Bedosti parla di sé nella sua intervista con se stesso riportata nel libro della decima edizione del Festival. Cosi nella sua creazione è possibile scorgere differenti livelli di presenza e assenza nei quali la vita e la morte non sono mai due estremi nettamente separati, bensì stati universali i cui confini sono sfumati e difficilmente identificabili. Cosi osservo l’azione scenica dove il tempo e lo spazio indefiniti mitigano la solitudine della carne e assopiscono la curiosità puramente materiale di quel mio primo sguardo sui libri di imbalsamazione che i due hanno riposto in un angolo della scena prima di cominciare la loro Cura.

Cosi inizia il mio viaggio nei luoghi emotivi e visionari del Buto al quale è stato dedicato un’amalgama di incontri e spettacoli. Teatro-danza giapponese che affonda le sue radici intorno agli anni cinquanta, quando Tatsumi Hijikata e Kazuo Ōno, tra i principali fondatori ed interpreti di questa forma d’arte, iniziarono a sperimentare nuovi princìpi alla base del movimento del danzatore-attore profondamente diversi da quelli della danza occidentale che contemplava in prima istanza, almeno fino ai primi del novecento, un accademismo e un classicismo coreografico ostinato e violento, per usare le parole di Gautier.

Un’amalgama dicevo, in cui alcuni dei protagonisti contemporanei della danza Buto come Tadashi Endo e Yumiko Yoshioka danzano insieme ad Alessandro Bedosti e Alessandra Cristiani, danzatori italiani che nel loro percorso artistico e formativo hanno esplorato il Buto e si sono lasciati segnare dal suo fascino grazie all’incontro maieutico con il maestro giapponese Masaki Iwana.

 

100 Light years of Solitude di Yumiko Yushioka, foto di Davide Colagiacomo

 

Sabato 9 Novembre la rassegna prende ampio respiro nelle sale del Palazzo Ducale; luci blu e verdi si intersecano in uno spazio buio e ampio nel prisma del quale il mio occhio scorge nuovamente la simbologia cristiana della croce; l’ordito di luci dal colore marino e terreno invita Tadashi Endo  ad un compianto per gli uomini e le donne che, migrando dal loro paese d’origine, spesso sono costretti a viaggiare per mare senza possibilità di salvezza. Tra mare e terra egli danza il suo principio Fudo No Do (muoversi per non muoversi) ed esplora questi luoghi tra luce e ombra, tempo e spazio, coscienza e trance come egli stesso dichiara. Alla ricerca di una riconciliazione tra pulsioni di vita e di morte insegue un luogo altro in cui le anime possano redimersi e in cui egli, redento, possa trovare quiete.

Con Souls In The Sea il danzatore giapponese invita lo spettatore ad una riflessione puramente emotiva sul fenomeno della migrazione, lo conduce in un viaggio che non contempla una valutazione razionale degli eventi, bensì un’immersione nel suo MA, termine con cui i giapponesi identificano uno spazio liminale, in cui il sentimento ritrova la sua origine primitiva e in cui il Kaiken e il Taiken, rispettivamente esperienza dello spirito e del corpo, trascendono la scissione che noi operiamo intellettualmente.

L’intreccio di visioni e discorsi apre un dibattito su “cosa sia il corpo danzante del buto che, spogliato dal genere e dall’identità”, afferma il professore Alessandro Pontremoli, “si oppone ai discorsi del potere sul corpo, poiché il Buto usa quest’ultimo in termini metamorfici. Il corpo danzante del buto è una traccia dell’essere nella forma della carne”.

Con questa intuizione che risuona nel petto, i discorsi si dissolvono per lasciare spazio al Corpus Delicti di Alessandra Cristiani che ci interroga sulle condizioni della carne. A partire dalla nudità muta, in tensione, ispirata ai dipinti di Egon Schiele, vengono esplorati diversi livelli dell’idea di corporeità; in un silenzioso pudore il corpo-carne della danzatrice mi invita con riservatezza ad entrare nella sua profondità. Corpo vicino e concreto quando lo osservo nella sua primitiva essenza. Carne che inghiotte lo sguardo. Tra una sospensione del movimento e una riappropriazione del luogo scenico, ora presente nelle sue coordinate spaziali, ecco un corpo-gesto gradualmente rivestito, sempre più lontano e astratto, che si fa scrutare nella sua quotidiana follia.

 

Corpus Delicti di Alessandra Cristiani, foto di Davide Colagiacomo

 

Dall’esplorazione del corpo nelle sue molteplici possibilità si giunge infine in un luogo immaginario in cui Yumiko Yoshioka ci invita ad entrare con la sua creazione 100 Light Years of Solitude. Nasce una creatura fantastica primitiva che, crescendo ed evolvendosi, scopre il luogo in cui si è dischiusa la sua vita, finché non sviluppa una coscienza abbastanza matura da rendersi conto della sua irriducibile solitudine. L’essere senza volto ma già capace di esprimere i primi cenni di un sentimento, vive una metamorfosi attraverso cui perde la sua forma mostruosa e aliena per accogliere  sembianze umane troppo umane che manifestano il dispiegamento di una epifania.

 

ANNA DI BARI

 

info: http://www.teatroakropolis.com/testimonianze-ricerca-azioni/