C’è grossa crisi: Fanny & Alexander, Costanza Macras e la mostra Anni Venti a Genova

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Costanza Macras, Hillbrowfication

 

Brevi note su come tre recenti proposizioni di teatro, danza e arti visive articolano il macro-tema della separazione.

«Sarò breve».

Rassicurazione oltremodo necessaria, apprestandosi ad accennare a tre esperienze artistiche, ed a un possibile fil rouge, decisamente ampi.

Senza alcuna pretesa di esaustività (né di oggettività) eccoci dunque a tracciare una linea che interseca sotto il segno della crisi (sia nell’accezione comune che in quella etimologica di separazione) tre proposizioni in cui ci siamo di recente imbattuti.

 

Adolfo Wildt, Madre, 1929

 

Al Palazzo Ducale di Genova (dove eravamo in occasione del bel Festival Testimonianze ricerca azioni a cura di Teatro Akropolis) abbiamo visitato la mostra Anni Venti in Italia. L’età dell’incertezza.

Visitabile fino all’1 marzo 2020, l’esposizione propone oltre 100 opere del gotha dell’epoca. Tra gli altri: Carlo Carrà, Felice Casorati, Giorgio de Chirico, Fortunato Depero, Achille Funi, Virgilio Guidi, Alberto Martini, Arturo Martini, Enrico Prampolini, Alberto Savinio, Gino Severini, Mario Sironi, Adolfo Wildt.

Tre folgorazioni, almeno.

Camminando tra le felpate sale dell’appartamento del Doge e la Cappella Dogale nelle quali si sviluppa l’esposizione, restiamo incantati di fronte a Madre di Adolfo Wildt, 1929, sopra alla quale è posto un verso di Camillo Sbarbaro (da Trucioli, 1920): «Così l’anima ha messo radice nella pietra», ad evocare una lacerazione, o nostalgia (che nell’etimo è dolore del ritorno).

Altra celebre Maternità: quella di Gino Severini del 1916 nella quale, raffigurando la moglie Jeanne intenta ad allattare il loro secondogenito, conclama una rottura linguistica e tematica rispetto a quanto prodotto fino ad allora, svoltando verso la forma classica.

Ancora un femminile, immobile e sontuoso, è protagonista di Donna alla finestra di Antonio Donghi (1926): maestro nel costruire una realtà ricca di particolari espressi con meticolosa cura e, contemporaneamente, a creare un effetto di straniamento, come se fossero presenti elementi magici che rimandano ad una sensazione non immediatamente comprensibile.

 

Fanny & Alexander, OZ

 

Un analogo sdoppiamento caratterizza anche OZ della Compagnia ravennate Fanny & Alexander, «spettacolo-game» per ragazzi tratto dai 14 libri di Frank L. Baum, visto al Teatro Il Piccolo di Forlì.

Chiara Lagani -ideatrice, drammaturga e protagonista dello spettacolo- ha una lunghissima e proteiforme frequentazione con questo autore e questi testi: impossibile e forse superfluo riassumerla qui.

In OZ la crisi è senza posa (pro)vocata nei giovani spettatori su due piani: quello della percezione e quello del contenuto.

Rispetto a quest’ultimo: ciascuno è fornito di un telecomando mediante il quale (forse finanche troppo spesso) scegliere come far proseguire la vicenda sul palco. In questo senso lo spettacolo si inscrive pienamente in una tendenza affatto diffusa di muovere il fatto scenico nella direzione dell’interattività diretta, dell’esplicita partecipazione, del coinvolgimento dello spettatore – fino a renderlo spettattore.

L’altro livello della separazione messa in atto è quello (a nostro avviso ben più interessante) del sistema di segni, a intrecciare presentazione e rappresentazione, immagini reali e proiettate (per quanto possa essere reale una maschera, senza dimenticare la liquidità che unisce nell’etimo maschera a persona), con una moltiplicazione di possibili percezioni e propriocezioni.

Muove in questa direzione anche la partitura fisica di Chiara Lagani, tra stilizzazione e didascalia: articolata con una lieve sfasatura in ritardo che sfoca la ricezione di quanto detto e agito, fornendo un ulteriore elemento di crisi dello/nello sguardo.

OZ è uno spettacolo semplice e colto, che intreccia L’Arrivée d’un train en gare de La Ciotat dei Lumière e la Grammatica della Fantasia di Rodari, Propp e lo strutturalismo: una proposizione che se vorrà alleggerirsi di alcune ridondanze (ritmiche, tematiche e didattiche) potrà certo costituire un’utile esperienza estetica (nel senso letterale di non-anestetica) per chi la incontrerà.

 

Costanza Macras, Hillbrowfication – foto John Hogg/Dance Umbrella

 

Una netta separazione tra Nord e Sud del mondo, ricchi e poveri, oppressi e oppressori è ciò che muove Hillbrowfication, andato in scena in esclusiva italiana all’Arena del Sole di Bologna e così presentato: «È un progetto performativo che coinvolge bambini e giovani (tra i 7 e i 23 anni) provenienti dalla zona di Hillbrow di Johannesburg: un approccio futuristico alla vita di un quartiere dove la situazione dei migranti, la violenza e la xenofobia costituiscono aspetti durissimi della quotidianità. Attraverso una serie di laboratori, i bambini e i giovani partecipanti dell’Hillbrow Theatre Project (Outreach Foundation) hanno lavorato con la coreografa Constanza Macras alla creazione di un linguaggio comune per dar voce alle loro percezioni ed esperienze di xenofobia e violenza nella città che abitano. A partire dai materiali prodotti durante i laboratori, i partecipanti sviluppano una performance».

Lo spettacolo ha un’esplicita matrice interculturale, nel senso che si fonda sull’intreccio di elementi provenienti da culture diverse, al contempo incarnando un possibile incontro fra mondo e rimarcando, ontologicamente, la distanza fra essi.

Danze, decorazioni e abiti che evocano l’immaginario occidentale sull’Africa e parrucche fucsia, segmentazione e acrobatica, tamburi e musica rap,  ironia verbale (anche sul mondo della danza) e temi sociali (ambiente, pregiudizi, equità, …), in una proposizione che senza la separazione sociale che tutti vediamo (e patiamo) non avrebbe ragione di esistere giacché non vi è, di fatto, alcun vero, fondo lavoro sulla creazione di un linguaggio scenico.

Hillbrowfication propone infatti -e questo è oltremodo sorprendente, portando la firma di Constanza Macras, uno dei grandissimi nomi della danza contemporanea mondiale- una serie di imprecisioni (ad esempio nei numerosi sincroni), forme e cliché degli esiti di laboratorio (ad esempio l’inizio e fine di azioni collettive dati da una musica che inizia e finisce, la secca alternanza di climi e scene), nei quali a prevalere non è tanto l’esito spettacolare quanto l’indubbio valore (sociale e socializzante, riabilitativo e testimoniale) che l’esperienza vissuta ha per chi vi partecipa.

Al di là di temi a tutti più o meno noti (e dei quali forse l’arte non può davvero approfondire la complessità, sfiorando sempre il rischio del generico, a livello di contenuti), vien fatto di pensare che l’unica crisi possibile, per lo spettatore, si giochi sul piano del linguaggio, del sistema di segni posto in essere.

Il resto è liturgia, e non serve a nessuno.

 

MICHELE PASCARELLA

 

Info: http://fannyalexander.e-production.org/ http://www.accademiaperduta.it/ http://bologna.emiliaromagnateatro.com/ https://www.dorkypark.org/ http://www.palazzoducale.genova.it/anni-venti-in-italia/