Realtà (aumentata): divagazioni

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Christo e Jeanne-Claude, Surrounded Islands, 1980-83

 

Pensieri sparsi su datità e arte, a partire da quattro forme in cui ci siamo di recente imbattuti.

– Ieri sera sono andato al cinema.
– E com’era il film?
– Stupendo. E poi era tratto da una storia vera!

Nel sentire comune, figlio di una idea settecentesca di bello come imitazione della natura, la stretta relazione figurale tra opera e mondo è considerata indice di artisticità, secondo un meccanismo (alcune volte consapevole, tante altre no), per il quale solitamente esclamiamo «Meraviglioso, sembra vero!» (o anche: «È come una fotografia!») di fronte a un disegno raffigurante, ad esempio, un albero.

Nei giorni scorsi, quattro proposizioni hanno alimentato alcuni pensieri sparsi sul molteplice, liquido rapporto fra il reale e le forme che l’essere umano decide di dargli nell’atto del (rap)presentarlo.

Due micro avvertimenti.

Il primo: il tema è ovviamente smisurato. Non vi è alcuna pretesa di esaustività, in queste righe, solo il semplice desiderio di condividere alcuni pensierini.

Il secondo: non si vuole, qui, recensire -né tanto meno giudicare- le forme incontrate, in questa occasione prese funzionalmente a stimolo di un piccolo discorso.

 

Cesare Pietroiusti

 

Una realtà con esplicito e reiterato referente autobiografico e restituita nuda e cruda, come puro residuato di esistenza ed esperienza, è quella al centro dell’antologica Un certo numero di cose / A Certain Number of Things che il MAMbo di Bologna ha dedicato a Cesare Pietroiusti.

Minimali oggetti della memoria sono installati nella monumentale Sala delle Ciminiere, secondo un chiaro procedimento di decontestualizzazione (come non pensare alla celeberrima pala duchampiana) e catalogazione: la vertigine della lista.

Oggetti-traccia, reperti di una biografia che erge a manifesto la propria ordinarietà: anti-eroe, anti-artista (almeno nell’accezione romantica), pro una consistenza che solo la lucidità della percezione (o la pienezza dell’incontro col reale, verrebbe da dire pur rischiando di esser vaghi) rende possibile. Opere come «piccoli pieni dentro a un grande vuoto», verrebbe da sintetizzare con Beckett.

A proposito di elementi riconosciuti nel sistema dell’arte: una serie di performance realizzate nell’arco di alcuni decenni da Pietroiusti è testimoniata da medium di varia natura. Alcune di esse durante il periodo di apertura della personale (terminata il 6 gennaio scorso) sono state ri-create da Pietroiusti assieme a un gruppo di giovani artisti e curatori da lui guidato.

Ciò pone almeno due intriganti domande: 1) quale rapporto con il reale si può apprendere, o almeno affinare, in un percorso di formazione con un Maestro come questo? Nel senso: chi abbia avuto la ventura di andare a bottega da Raffaello, Michelangelo o da Melozzo da Forlì è chiaro quali perizie ha (o almeno avrebbe) potuto inseguire e perseguire. Ma un artista che mette in mostra il proprio abbonamento allo stadio cosa insegna, rispetto a un discorso al e sul mondo? 2) se è vero, come afferma Ernest Gombrich in apertura della sua imprescindibile Storia dell’arte, che «Arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte» non è dunque possibile una forma artefatta che sia univocamente letta al di là dei dati culturali di partenza? Che possa essere percepita in maniera simile, se non analoga, da noi come dagli Aborigeni australiani, dai Dongria Kondh indiani o dai Surma etiopi?

 

Shirin Neshat, Women of Allah, 1994

 

Di mostra in mostra, a Reggio Emilia abbiamo visitato, a Palazzo Magnani e ai Chiostri di San Pietro la l’enciclopedica What a wonderful world (aperta fino al prossimo 8 marzo), che porta come chiarificante sottotitolo La lunga storia dell’Ornamento tra arte e natura.

Enciclopedica, si diceva: moltissimi sono i campi attraversati e i supporti utilizzati, nelle oltre 200 opere che compongono una galassia che fa dell’aggiunta (decorativa, ornamentale) il punctum: sideralmente distante -almeno in apparenza- dalla fenomenologia di Pietroiusti, la miriade di segni che pulsante di offre alla nostra percezione pone una serie di feconde domande sull’inevitabilità.

È ontologicamente possibile (ammesso che sia desiderabile) concepire una comunicazione del/al/sul reale che non sia abbellita, nel senso di modificata? Il fatto in sé di esporre un oggetto, quale esso sia, anche il più ordinario, non è ipso facto un gesto di selezione e dunque di ornamento (anche non intervenendo direttamente sull’oggetto, il creare attorno ad esso un vuoto per offrirlo alla visione non è un atto decorativo, ancorché mediante il contesto)?

 

Laura Gambi e Laura Orlandini

 

Tante domande hanno suscitato, le due appena citate esposizioni, così come molte (se) ne pone Delitto d’onore a Ravenna (Edizioni Pendragon, 2019), che la scrittrice Laura Gambi e la storica Laura Orlandini hanno dedicato al caso Cagnoni, oscura vicenda di cronaca nera che nel 2016 ha scosso la comunità locale -e non solo: l’efferatissimo omicidio di una giovane donna della Ravenna-bene, Giulia Ballestri, la cui responsabilità i primi due gradi di giudizio hanno imputato al di lei marito, il dermatologo Matteo Cagnoni.

Mediante un rigoroso e approfondito studio dei fatti (Gambi e Orlandini hanno preso parte come uditrici a tutte o quasi le decine di udienze di cui si è costituito il processo di primo grado), così come di vari ampliamenti tematici (storici, psicologici, sociologici, …), il libro restituisce una complessità che è forse impossibile (e nemmeno auspicabile) ridurre a una mera contrapposizione buoni vs cattivi.

Pur nella esplicita convinzione della piena colpevolezza dell’imputato, le due autrici allargano l’orizzonte di senso e di interrogazione alla comunità civile, cioè a tutti e a ciascuno.

Ai fini del nostro piccolo discorso, vale notare come in questo caso la realtà che si è andata tratteggiando si componga di diverse realtà: da quella medico-scientifica (tracce di DNA, …) a quella investigativa (immagini riprese dalle telecamere di sicurezza), da quella storica (le origini della famiglia Cagnoni) a quella psico-sociologica (i rapporti della coppia con famiglia e amici, la loro immagine pubblica), ecc.

Si perdoni il gioco di parole: quale di queste realtà è più reale delle altre? Lo è una e le altre le fan da corollario? O una realtà generale (o, finanche, oggettiva) può esistere solo dall’unione di varie realtà parziali?

Non si consideri ciò come mero esercizio retorico: in questi casi ciò ha a che vedere con decisioni riguardanti vita e morte di esseri umani.

 

Paola Sabbatani trio

 

Vita e morte, amore, questione femminile e lavoro -soprattutto il lavoro- sono i diversi fili che tessono ordito e trama del concerto Vincenzina e le altre che Paola Sabbatani (canto), Roberto Bartoli (contrabbasso) e Daniele Santimone (chitarra) hanno proposto nell’ambito del ricco calendario del Mama’s – Performing Arts Cafè di Ravenna.

Paola Sabbatani (un passato come attrice, cantante e musicista nel battagliero ensemble faentino Teatro Due Mondi, docente di vocalità e canto popolare, membro stabile della Redazione di Una città – mensile di interviste, rivista politica fondata nel 1991 a Forlì) in questa proposizione da lei voluta e guidata sintetizza e distilla le sue molte anime, ad articolare un repertorio multiforme (canzone politica e sociale, d’autore e di matrice popolare, di diverse epoche e provenienze geografiche) che si caratterizza per una esplicita volontà narrativa e, appunto, realistica.

Non è questa la sede, come detto, per analizzare la ricchezza culturale, ancor prima che meramente vocale o strumentale, di questo itinerario, il suo porsi come intenso e al contempo ironico discorso alla e sulla società, alla e sulla Storia.

Nella cornice, e in chiusura, della nostra parziale riflessione vale notare come il rapporto con il reale che questo concerto istituisce è in un delicato equilibrio tra accadimenti restituiti per quali essi si sono manifestati (à la Pietroiusti, per intenderci) e uno svelante ornamento à la Shirin Neshat (dunque intriso di istanze civili, sociali e politiche).

Paola Sabbatani (ci) muove nella direzione del sentimento, della testimonianza del tragico, della nostalgia (che nell’origine della parola è dolore del ritorno). E, appunto, dell’ironia.

Nel non porsi definitivamente né da una parte né dall’altra rispetto alla (rap)presentazione del reale, si tratta di una esperienza estetica che lietamente e senza posa interroga la nostra intelligenza (di donne e uomini, ancor prima che di spettatori), termine qui da intendersi nel senso della nostra capacità di leggere i diversi contesti e modificarli, modificandoci.

Dire grazie, almeno.

 

Mistero glorioso
la faccia del mondo
sotto la tessitura di nomi,
festa del sangue
le ferite che vengono al rosso
per filare luce.
Nel cuore della notte
(la notte ha cuore)
accerchiante buiezza
l’io è uno sbando
qualcuno che non ti pensa –
quasi mai.
Mettiti nei tuoi panni
e comincia a danzare.

Chandra Livia Candiani

 

MICHELE PASCARELLA

 

Approfondimenti: http://www.mambo-bologna.org/mostre/mostra-277/ https://www.palazzomagnani.it/in-corso/mostre/what-a-wonderful-world/ http://www.pendragon.it/libro.do?id=2830 http://www.mamasclub.it/vincenzina.htm