Danza, politica e società. Conversazione con Marco Augusto Chenevier

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photo Alex Brenner

 

Vive e lavora tra Francia e Italia. Mescola coreografia, teatro, circo, cabaret, giochi di società e tecnologia per parlare di tagli alla cultura, ricerca scientifica e di tanto, tanto altro. L’abbiamo intervistato.

Nei giorni scorsi hai presentato il tuo Quintetto al Salone Snaporaz di Cattolica nell’ambito della rassegna E’ Bal. Palcoscenici romagnoli per la danza contemporanea. In questo spettacolo rifletti a voce alta sui tagli alla cultura e coinvolgi attivamente alcune persone del pubblico. A favore di chi non conosce il tuo lavoro, racconti come si sviluppa questo lavoro?

Quintetto nasce dalla crisi economica, dalla mancanza di sostegni e dai tagli che si sono abbattuti su tutti i settori della società. Anziché piangersi su, pensammo che fosse più interessante tentare di trovare delle soluzioni… e così non si può che raccontare come sarebbe stato Quintetto con tutte le caratteristiche del caso, e contare sulla cooperazione del pubblico.

Hai allestito Quintetto in diversi Paesi (vincendo, peraltro, numerosi premi). Come lo adatti, di caso in caso, e quali differenze hai riscontrato, nella reazione degli spettatori?

La prima differenza è il background culturale sul quale giochiamo: Blade Runner, o Rita Levi Montalcini. Non in tutti i Paesi fanno parte dell’immaginario collettivo. Ma anche le convenzioni teatrali a cui faccio riferimento, e che costituiscono il quadro all’interno del quale si sviluppa il rapporto di potere scena/pubblico, cambia a seconda dei luoghi. All’estero presento sempre il Premio Nobel con una sua gigantografia, con tutti gli onori ed il rispetto che merita. In ogni caso Quintetto passa attraverso la comunicazione diretta, ed attraverso di essa risolvo ogni eventuale problema nella costruzione della situazione teatrale. Lavorando in interazione, ovviamente sono poi abissali le differenze non solo tra i Paesi, ma anche, in Italia, tra le varie regioni, in rapporto alla scena, al gioco, il pudore…

Oltre a Rita Levi Montalcini e a  Blade Runner, in Quintetto affiora anche Silvio Berlusconi. Che funzione hanno, nel tuo lavoro, queste icone dell’immaginario collettivo?

Rita Levi Montalcini è la figura intorno alla quale tutto Quintetto è costruito: è figlio dello spettacolo del 2008 Montalcini Tanz, che indagava i collegamenti tra ricerca artistica e ricerca scientifica e lo spinoso tema dei tagli alla ricerca scientifica e alla cultura. Berlusconi era, purtroppo, Presidente del Consiglio, all’epoca della produzione di Montalcini Tanz: lo cito per ricordare lo scontro che si consumò intorno alla figura di Rita Levi Montalcini ed il rischio di sfratto che l’EBRI (European Brain Research Institute) sperimentò durante il suo governo. Blade Runner per me è un inno all’umanità, all’errore di sistema: sono le parole che metto in bocca alla Montalcini. che simbolicamente cerca di farsi ascoltare da una gregge di sordi.

«Abbiamo creato dei piccoli meccanismi, delle “trappole” sornione, in cui gli spettatori vengono accompagnati dai due performer. Questi dispositivi sono concepiti in modo tale per cui gli spettatori devono, per far procedere la drammaturgia, intervenire, interrompendo o modificando lo svolgersi della scena» si legge nella presentazione di Questo lavoro sull’arancia, spettacolo che fin dal titolo propone un esplicito riferimento al capolavoro di Stanley Kubrik. Come è realizzata l’interazione con il pubblico, in questo caso?

In ognuno dei miei lavori ho affrontato il rapporto di potere scena/pubblico e la condizione dello “spettatore”, destrutturando le convenzioni teatrali attraverso l’invasione di campo in altri linguaggi. In Quintetto, ad esempio, è il cabaret il grimandello attraverso il quale scasso la coreografia. In Questo lavoro sull’arancia, ispirato come tu dicevi ad Arancia Meccanica, usiamo un software e un arbitro umano che registra le scelte del pubblico a ogni scena. Lo spettacolo, in questo caso, è costruito attraverso una progressione di passaggi, di dispositivi di gioco, che portano a un finale durante il quale tutto il pubblico, volente o nolente, deve prendere una decisione. L’interazione cambia costantemente: a volte si aderisce all’unanimità, altre volte la scelta di un singolo spettatore influisce su tutti gli altri, altre ancora solo la cooperazione può portare ad un cambiamento della drammaturgia.

Un altro titolo del tuo attuale repertorio è Saremo bellissimi e giovanissimi sempre, che hai dedicato a Meister Eckhart, il mistico domenicano del XI secolo. O, meglio, alla difficoltà di mettere in scena uno spettacolo su di lui. Perché hai costruito (e come hai gestito) questo paradosso?

Questo lavoro è forse il più convenzionale dal punto di vista della destrutturazione del rapporto scena/pubblico: l’interazione trova spazio in una semplice zona grigia di dialogo, di pensiero e di riflessione. Il paradosso, in realtà, è il pretesto per poter raccontare Meister Eckhart e per permettersi di immolarsi nell’epoca del fare, delle “opere”, per citare il Meister, e tentare di cogliersi in flagranza di reato mentre inseguiamo male la felicità: attraverso gli oggetti, attraverso le nostre azioni. Costruire questo paradosso significa per me vedere il paradosso che sono io stesso, in quest’epoca paradossale.

Temi sociali, civili e morali. Uso della parola. Attivazione delle persone che incontri. Perché fare arte e non, direttamente, politica?

Bella domanda… da giovanissimo volevo farla. Poi  ho capito che quel mondo non era per me, che era basato sull’apparenza, sul consenso, sull’inganno. Ho preferito dedicarmi a qualcosa che avesse a che fare, invece,  con la verità. Pensai alla ricerca scientifica, appunto, oppure all’arte. Danzare, muoversi nello spazio, incontrare altri corpi, giocare, fare festa, gioire, divertirsi, amare, provare piacere, sorprendersi, riflettere. Tuto questo è politica. Ed è arte. Non riesco a creare un confine netto: sento la politica come la zavorra salvifica della speculazione filosofica, e l’arte come la pratica che più mi si addice, come l’ambito in cui farsi attraversare dall’immaginario, attraverso la tecnica e la prassi quotidiana.

Infine, pensando a chi è meno avvezzo alle stramberie del contemporaneo: secondo quale idea il tuo lavoro può essere definito danza?

Non mi interessa definire il mio lavoro, normalmente queste sono preoccupazioni per dirigenti ministeriali, o per direttori artistici. Anziani.

 

MICHELE PASCARELLA