La commedia della vanità al Teatro Bonci

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Elias Canetti è uno dei grandi classici del Novecento. Nato in una provincia remota dell’impero austro-ungarico (in Romania, in una agiata famiglia di origine ebraica), visse gli anni della sua formazione intellettuale a Vienna, dove fu testimone diretto degli eventi cruciali del secolo passato, ed in particolare della crisi che portò alla graduale dissoluzione dell’impero e al successivo avvento del nazismo, che lo costringe a fuggire, prima a Parigi e quindi a Londra. In questi anni decisivi e turbolenti vide le grandi mobilitazioni popolari promosse dai nascenti partiti politici di massa, di sinistra e di destra. Appartiene a quel genere di autori che hanno dedicato l’intera vita ad una sola opera. Massa e potere, pubblicato nel 1960, è una grandiosa analisi sui fondamenti antropologici del potere, condotta secondo prospettive eterodosse rispetto a quelle proprie della filosofia politica (una prospettiva che unisce elementi dell’antropologia, della sociologia, della mitologia, dell’etologia, della storia delle religioni). Viene analizzata la tendenza innata dell’individuo a raggrupparsi in masse e quella delle masse ad assoggettarsi ad un capo. Canetti è noto inoltre, per un folgorante romanzo giovanile (Auto da fé) e per la sua autobiografia, pubblicata in più volumi. Queste opere (in Italia tutte pubblicate da Adelphi) gli valsero, nel 1981, il riconoscimento del Nobel per la letteratura. A questo autore, grande ma quasi dimenticato, Emilia-Romagna Teatro ha dedicato un progetto che ha visto la messa in scena di due opere drammaturgiche giovanili, quasi sconosciute. Oltre alla Commedia della vanità, anche Nozze, affidata alla regia di Lino Guanciale.

Sulle ragioni di questa scelta così insolita e coraggiosa rimandiamo all’interessante conversazione di Michele Pascarella con Claudio Longhi, direttore di ERT e regista dello spettacolo, nella quale sono evidenziate anche le connessioni con i problemi del nostro tempo che i testi di Canetti evidenziano.

La commedia della vanità è stata scritta nel 1934. È fortemente condizionata dai fatti che videro l’affermazione, in quegli anni, di un nuovo regime autoritario, quello nazista e dalla particolare fascinazione delle masse per quella nuova forma di potere. In particolare prende spunto dai roghi dei libri organizzati dalle milizie naziste.

Siamo forse a Vienna, ma potrebbe essere Berlino, Parigi o finanche Metropolis nella sua dimensione quasi fantascientifica, in un mondo che ci appare lontano, ma in fin dei conti presenta qualche inquietante somiglianza con il nostro. Il governo, che domina anime e corpi, ha deciso per decreto di bandire la vanità. È bandita l’immagine, in qualunque forma essa si presenti e così l’ordinanza, letta dal banditore Wenzel, impone la distruzione di specchi, fotografie, ritratti e qualsiasi oggetto riflettente la figura umana.

Negli eccessi di compiacimento narcisistico che la campagna di moralizzazione avviata dal potere intende contrastare, lo spettatore è indotto a vedere qualche somiglianza con il nostro mondo dominato dai social e dalle mode, nel quale l’essere è abbandonato a favore dell’apparire, e dove la duplicazione del proprio io, attraverso lo specchio deformante del social, è bramata quasi più della vita stessa.

I personaggi della commedia di Canetti accettano con iniziale entusiasmo quanto il potere (il predicatore Brosam, interpretato da un ottimo Fausto Russo Alesi), suggerisce dall’alto. Una umanità confusa e disorientata si affida ciecamente ad un potere che non riconosce limiti al proprio agire.

L’obiettivo è annullare l’identità dell’uomo, che così diventa più malleabile e coercibile. Il disorientamento è generale (nella arrendevolezza quasi entusiastica iniziale, dove si fa gara a chi porta alla distruzione più specchi, e nelle successive striscianti forme di rivolta) e, nella regia di Longhi è rappresentato dal brulicare di anime perse che si aggirano in ogni spazio possibile del teatro, che è completamente asservito alla scena, palchi e platea compresi, in una sorta di abbattimento della quarta parete in grado di far diventare gli spettatori parte di un dramma umano, la perdita di sé stessi, l’oblio della propria sembianza.

Nella seconda parte è invece rappresentata la lenta presa di coscienza, la resistenza umana e il volersi riappropriare di un’immagine che poi è identità. L’individuo, che era diventato massa indistinta, ritorna sé stesso e risponde con un “IO” replicato alla chiamata alla rivolta. Ma con la stessa violenza con la quale la soggettività era stata inizialmente annichilita, la sua riaffermazione si traduce in un nuovo eccesso, in una torva esaltazione del culto della personalità.

Quello visto al Bonci è uno spettacolo smisurato: quasi trenata gli attori sulla scena (tra questi anche alcuni musicisti), quasi cinque le ore di durata. Non tutto è riuscito alla perfezione, la coralità del racconto a volte disorienta, ad esempio alcuni attori interpretano più parti nella commedia e a volte non è così facile distinguerli. D’altro canto il testo di Canetti, anche se semplificato, è estremamente complesso.

È davvero molto apprezzabile che ERT, in coerenza con la missione propria di un teatro stabile pubblico, abbia deciso di affrontare un impegno produttivo così rilevante. Esso peraltro ha offerto l’occasione per un primo approdo professionale ai giovani attori che ERT stessa ha formato attraverso la Scuola di teatro Iolanda Gazzero.

di Dario Zanuso e Aldo Zoppo