CURA AD USO COMPASSIONEVOLE

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L’articolo è tratto dal nostro repertorio di numeri cartacei

Antonio, malato di un tumore al cervello, è stato cavia per una cura sperimentale che purtroppo non funziona, tranne per lui. La sua testimonianza è stata raccolta da Stefano Damiani e Paolo Martini.

Mi chiamo Antonio, facevo il ferroviere, ho una moglie, due figli grandi e laureati, la passione per la politica attiva, una casa vicina al fiume, non sono nonno. Conducevo una vita tranquilla e appagante, senza troppi vizi o grilli per la testa. Tre anni fa, o giù di lì, prendo l’auto per fare alcune commissioni, niente di importante, le solite cose da pensionato. Solo che io penso di andare diritto ma la macchina piega a sinistra. Una, due, dieci volte. Vado dal meccanico, la mia utilitaria è sanissima, mai visto uno sterzo così preciso, sentenzia. Sono io che sterzo a sinistra e non solo politicamente. Vado dal medico di base, uno vecchia maniera: un amico di famiglia che ha studiato. Risonanza urgente, anzi: urgentissima.

A cambiarmi la vita è il radiologo, un cinquantenne stempiato: glioblastoma multiforme, è grande come una patata, trenta centimetri di tumore. È operabile, ma è in una posizione «infelice». So di cosa sta parlando, è la stessa sentenza che hanno ricevuto, prima di me, mio cognato, un collega e Ted Kennedy, nessuno ha avuto il tempo di raccontarmi com’è andata. Un blastoma è una brutta bestia, ma il prefisso glio mi trasforma in un morto che cammina. Penso a questo mentre due bellissime impiegate, con un vago accento francese, mi consegnano il dvd della risonanza. Inizia così la mia odissea in giro per gli ospedali, la stessa che affrontano i quattrocentomila nuovi malati che, in Italia ogni anno, si sommano ai sopravvissuti degli anni precedenti. Siamo la grande famiglia dei malati oncologici, quelli che vedono la morte in faccia come, forse più di quelli che fanno un frontale perché la macchina piega a sinistra.

Un neurochirurgo, un luminare, un mio coetaneo, dopo un po’ d’insistenza (a suo dire l’operazione è rischiosa) decide di aprirmi. In ogni caso, non riuscirà a estirpare la patata perché la bastarda ha fatto, letteralmente, le radici dentro di me. Per le radici serve la chemio. Ma neppure la chemio basta, perché il tubero si è affezionato particolarmente al mio cervello.

Così mi propongono di entrare a far parte di un protocollo di cure sperimentali avviato da una multinazionale del farmaco, quella dell’aspirina e dello Zyklon B, per intenderci, ma io non vi ho detto niente. Quindi, per fare un breve riassunto: nel giro di pochi mesi sono passato dall’essere un pensionato sereno con lo sterzo della macchina rotta ad aspirante cavia umana. A gestire il progetto c’è una dottoressa di origine sudamericana, diciamo che non fa nulla per essere simpatica. Ma per me è, da subito, bella e dolcissima. Se hai la casa infestata dai topi non guardi il colore del gatto. È la fata che mi salverà.

Faccio tutti gli esami del caso perché per farti curare devi dimostrare di essere sanissimo, la multinazionale non vuole spendere dei soldi per te, se poi gli muori subito. Mi accettano, sono un morto che cammina in splendida forma. Anche perché, per reggere le cure devi fare una vita da atleta. Due litri e mezzo di acqua al giorno per sciacquare i veleni, mai proteine animali mischiate a quelle vegetali. I fritti sono vietatissimi. Le medicine, con me, funzionano. Certo, ho le mani gonfie, la pelle secca, cagare è un’impresa e definirmi spossato è un eufemismo. Ma sono vivo. Gli altri, i miei compagni in questa maratona con la morte, non ce la fanno. Alcuni escono dal protocollo perché debilitati, altri devono arrendersi e morire. Ogni mese, quando vado a ritirare le medicine (dei pasticconi colorati) siamo sempre meno, vivo col terrore di rimanere da solo.

Dopo circa un anno dall’inizio della cura, potrei stare meglio ma non posso certo lamentarmi. Invece la mia fatina scorbutica mi dice, con le lacrime agli occhi, che il protocollo sarà interrotto. Sono rimasto l’ultimo e non si fa scienza con una sola cavia. Ciò che ha funzionato per me non ha funzionato per gli altri. Come qualche volta accade nella vita, non so se ridere o se piangere: è l’unica speranza che ho per restare in vita, l’unica terapia che mi permette di svegliarmi la mattina. Ma non è statisticamente provato che funzioni. Sono un errore in un protocollo scientifico. Il mio unico orizzonte si chiama Regorafenibâ, i famosi pasticconi luminosi, un farmaco inibitore della crescita tumorale efficace per la cura del tumore al colon retto e che fa parte dei medicinali soggetti a prescrizione medica limitativa. È una medicina che non guarisce. Immaginatevi il bugiardino: fra gli effetti collaterali si registrano secchezza delle fauci, stitichezza, stanchezza cronica e un tasso di mortalità molto vicino al 100%. Servono anche a questo le cure sperimentali, i trial scientifici: a scrivere quei papiri pieghettati che non si leggono quasi mai. Così, in barba alla disperazione, faccio l’unica cosa che mi ha tenuto in vita negli ultimi due anni, non mi arrendo. Perché dovrei farlo proprio adesso?

Con l’aiuto dei miei figli (averli fatti studiare è servito a qualcosa) dispongo un’ecatombe di carte bollate. Sicché, nel giro di due mesi, i pasticconi fluorescenti della casa farmaceutica non mi vengono somministrati più come cura sperimentale bensì come cura ad uso compassionevole, credo che si chiami così, ma potrebbe avere anche un altro nome, francamente non mi interessa.

L’importante è rubare tempo all’inevitabile. Così la vita scorre, faticosa e testarda, ma va avanti anche la scienza: la mia medicina, quella che funzionava solo per me, adesso sembra che abbia effetto anche su altri malati. E allora, dopo aver rubato mille giorni alla vita, sono tornato al punto di partenza. I pasticconi me li prescrive un mio amico, il medico di base. Perché, se c’è una cosa che ho imparato da una macchina che sterza a sinistra anche se vuoi andare diritto, è che, sperimentale, compassionevole o con ricetta, per essere vivi serve la speranza, anche senza foglietto delle istruzioni. Cosa aspettano i miei figli a farmi diventare nonno?