The loudest voice: il giornalismo dietro la politica americana

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the loudest voice

Bill Clinton e Donald Trump. Due nomi che sembrano appartenere a due ere geologiche diverse: tra la fine del mandato di Clinton e l’elezione dell’attuale presidente degli Stati Uniti d’America sono intercorsi circa vent’anni in cui è successo di tutto. L’Occidente ha assistito a radicali cambiamenti che prima avrebbero richiesto il passaggio di almeno due generazioni: 11 settembre e guerra in Iraq, gli attentati dell’ISIS in Europa, l’avvento dell’iPhone e dei social network, e in questo periodo di tempo l’America ha davvero cambiato volto. Una persona, però, è stata sempre presente, nascosta dietro le quinte del canale di informazione più seguito negli USA. Stiamo parlando di Roger Ailes e della sua creatura, Fox News, attuale voce dei conservatori americani. The loudest voice (Sky), basata sull’omonimo libro di Gabriel Sherman (inedito in Italia), racconta la nascita e l’evoluzione del servizio di news h24, aprendo una finestra sulla storia recente del partito repubblicano americano, che in soli otto anni è passato dal candidare John McCain, eroe di guerra molto rispettato anche dai suoi avversari politici, al discusso Donald Trump.

“La gente non vuole essere informata, vuole sentirsi informata”

In sette puntate sono condensati numerosi temi, ma tutto ruota intorno al ruolo dell’informazione nell’orientare l’elettorato, a tutti i livelli. Ne è la prova un episodio minore, in cui Roger Ailes riesce a mettere a direzione del giornale di una piccola città un uomo facilmente condizionabile: l’uso spregiudicato della cronaca locale trasforma una piccola e pacifica realtà in un covo di divisioni e forti contrapposizioni. La stessa cosa succede più in grande alla Fox: un uso sensazionalistico della notizia, che fa da cassa di risonanza ai peggiori complottismi, manovrata da un uomo nelle cui mani si concentra anche il destino dei suoi dipendenti e delle loro carriere. Il filo conduttore della trama che mantiene lo spettatore incollato allo schermo è proprio il personaggio di Roger Ailes, un paranoico e predatore sessuale interpretato da uno straordinario Russell Crowe. Se state cercando una serie che approfondisca l’aspetto psicologico del protagonista, continuate però a cercare perché qui non lo troverete: questa apparente mancanza è in realtà una scelta ben precisa degli sceneggiatori, che hanno messo al centro della storia non tanto le cause per cui il “cattivo” è tale, quanto gli effetti delle sue azioni.  Il personaggio è comunque piuttosto facile da decodificare: dotato di una grande intelligenza, la usa per manipolare le persone con una brutalità estrema, atteggiamento che si manifesta con particolare ferocia nei confronti delle donne che lavorano per lui. Il suo rapporto con l’altro sesso è uno dei motivi meglio riusciti di tutta la produzione, che descrive i meccanismi di potere che soggiacciono al rapporto vittima-carnefice e che spesso portano la prima a non denunciare le violenze subite e il secondo a insabbiare tutto.  La rappresentazione di come la violenza sessuale distrugga una donna – una violenza psicologica, ancora prima che fisica –  rende particolarmente efficaci alcune scene.

La serie, particolarmente adatta al pubblico europeo interessato ad approfondire le dinamiche politiche sull’altra sponda dell’Atlantico, sfata la visione distorta e parziale di New York come sintesi degli Stati Uniti. Una percezione in un certo senso giustificata, poiché – a detta di Ailes stesso – neanche una buona fetta degli americani capisce che “Chi vive al di là dell’Hudson, il vero popolo americano, ama Donald Trump”. Un’ affermazione rivelatrice di due realtà: da una parte la superficialità di analisi dei media, dall’altra tutta la retorica di Ailes, secondo il quale a un popolo vero e puro se ne contrappone uno traditore dei valori americani. Ad ogni puntata, quindi, si fa spazio l’idea che la vittoria di Donald Trump nel 2016 fosse meno imprevedibile di come sia stata riportata, frutto di una radicalizzazione nell’elettorato iniziata negli anni Settanta e deflagrata a partire dai Novanta, punto di partenza del racconto di The loudest voice. 

Senza spoilerare nulla (ma è cronaca: trovate tutto su Wikipedia), la scena finale regala un’ultima riflessione: quello che Roger Ailes ha realizzato con Fox News va oltre la sua persona, si tratta di un modo di intendere l’informazione con conseguenze a lungo termine. Torniamo quindi ai vent’anni iniziali: quando Bill Clinton era presidente nessuno pensava che la creazione di un canale all news avrebbe contribuito a portare Donald Trump alla Casa Bianca. Eppure, nei due decenni in cui tutto è cambiato, l’aver perseverato nel proprio progetto alla fine ha fatto sì che si ottenesse il risultato sperato, al di là dei destini dei singoli. Sostenuta da un ritmo incalzante ma mai frettoloso e da ottimi dialoghi, la miniserie risulta un prodotto di ottima fattura. Buona l’idea di spezzare il girato con filmati d’epoca, ricordandoci che ciò che stiamo osservando è la narrazione di fatti realmente accaduti.

Se dopo aver visto The loudest voice decideste di saperne di più su cambiamenti sociali, economici e culturali avvenuti nel corso degli ultimi decenni negli Stati Uniti, vi consiglio Questa è l’America, un saggio di Francesco Costa (vicedirettore del Post ed esperto di “cose americane”): una parte del libro è proprio dedicata al fondatore di Fox News.