“Off” e “On” in Todi Festival 2019. Tra tradizione e nuova drammaturgia

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foto di Roberto Biselli

 

La direzione artistica di Roberto Biselli di Todi Festival 2019 (24 agosto – 1 settembre 2019) ha puntato sulla mescolanza di due modi di fare teatro. Da un lato, c’è il versante più tradizionale e vicino al sentire del grande pubblico, ossia la rassegna “On”. Qui è stata prevista la messa in scena di spettacoli serali di prosa e di repertorio spesso classico, allestiti nel Teatro Comunale di Todi. Dall’altro lato, troviamo invece la rassegna “Off”. Come da nome, essa propone lavori che per linguaggio, contenuti e stili diverge dall’immaginario o dai riferimenti consueti agli spettatori più tradizionalisti. Biselli ha previsto per la rassegna “Off” sette spettacoli in orario tardo-pomeridiano di sette compagnie artistiche, diversissime per intenti e per anni di esperienza, ma raccolti sotto la dicitura del Futuro Anteriore, o del “sarà stato”. L’espressione suggerisce che gli spettatori non possono che trarre giovamento dal vedere la stessa scena attraversata tanto da artisti con consolidata attività sulle spalle (= lo “stato”), quanto da altri che hanno appena iniziato e cresceranno (= il “sarà”).

Uno degli aspetti apprezzabili di questa organizzazione del festival è il fatto di offrire una proposta artistica ricca ed elaborata, che cerca di guidare poco alla volta il pubblico all’esperienza di nuovi linguaggi, senza però costringerlo a seguire un percorso troppo definito e imposto dall’alto. Il rischio maggiore che si corre quando si intende “educare” gli spettatori è, infatti, quello di presentare verità e sicurezze, o di insegnare la ricetta, gli strumenti e le poetiche che dovrebbero magicamente portare all’evocazione del teatro sulla scena. La proposta di Biselli si ispira, di contro, a un principio di delicatezza e, implicitamente, a una ricerca estetica di tipo “scettico”. Vedendo una variegata offerta artistica, gli spettatori ricevono stimoli discreti a interrogarsi, a provare a guardare un pochino oltre e a sentirsi invogliati a sondare l’ignoto, con la sicurezza psicologica di poter tornare con gli spettacoli del Comunale alla loro comfort zone, nell’abbraccio della tradizione.

Altrettanto delicata e condivisibile è poi la scelta di far dialogare il pubblico con gli artisti in modo leggero, di nuovo eliminando qualunque percorso “pedagogico” strutturato e forte. La modalità è quella semplice ed efficace di dedicare un apposito spazio di riflessione in comune nella mattina seguente alla replica di uno spettacolo “Off”, con la compagnia che risponde alle domande curiose degli spettatori e con gli operatori che, abbandonando il linguaggio tecnico o specialistico, cercano di far emergere che cosa ci può essere di interessante in questo teatro anti-tradizionale. Si evita così la Scilla del formalismo, che potrebbe appesantire e respingere gli interessati ancora poco pratici del teatro di ricerca, sia la Cariddi della chiacchierata approssimativa, che nasce inevitabilmente laddove si lascia dirigere la discussione in plenaria soltanto ai non-addetti ai lavori.

Nelle considerazioni che seguiranno, proverò a sintetizzare le riflessioni nate dall’incontro con il pubblico di tre spettacoli visti nella rassegna “Off”: Luna Park – Do you want a cracker di Leviedelfool, L’incidente è chiuso di Menoventi e Mater Dei della Piccola Compagnia della Magnolia. Cercherò inoltre di distinguere le idee che sono nate dallo sguardo del sottoscritto dalle percezioni avute dal pubblico, abituato a guardare tali lavori secondo gli stili della modalità “On”.

 

Luna Park – foto di Roberto Biselli

 

Il lavoro Luna Park consiste in un lungo monologo dell’attore Simone Perinelli, che parte dalla prospettiva di un emarginato che vive nella periferia di Roma, a ridosso della Tangenziale Est. Egli vive nella convinzione che gli alieni sono atterrati sul pianeta e riferisce a un interlocutore invisibile tutti i segni evidenti di tale evento: navicelle che rubano le casse dell’immondizia in strada, frotte di persone che si radunano sotto i ponti autostradali per condurre esperimenti, e via dicendo. Il personaggio si prepara allora psicologicamente al giorno in cui incontrerà una di queste creature dal vivo, cerca di anticipare cosa sarà meglio dirgli e proporgli per provare a stabilire un dialogo, magari una frase molto semplice come il «Do you want a cracker?» del titolo. La sua convinzione è talmente viva da consentirgli un giorno di volare sulla luna, dove incontrerà un alieno che gli parlerà addirittura in spagnolo. Poco alla volta, però, si intuisce che quanto è riferito è tutto frutto dell’immaginazione di questo povero emarginato. Le navicelle non sono altro che i camion della nettezza urbana di Roma, mentre gli alieni che si radunerebbero per fare esperimenti sotto il ponte consisterebbero in un gruppo di barboni che si difendono dal freddo con l’accensione di un fuoco. Solo il volo verso la luna racconta un evento “reale”. L’alieno che il personaggio incontra non è infatti altro che un suo doppio onirico: il Don Chisciotte dell’omonimo romanzo di Cervantes che, come l’emarginato di Roma, non sa accontentarsi della realtà ordinaria e, per conviverci, è costretto a sublimarla sognando avvenimenti esaltanti, ma impossibili. Il personaggio compie pertanto un percorso di resistenza artistica. Il desiderio di incontrare un alieno è una sorta di transfert per sopravvivere al vuoto di senso e per cercare una bellezza assente nel mondo, che è poi la condizione dell’artista contemporaneo – un novello Don Chisciotte che crede e spera in quello che gli altri ritengono incredibile/insperabile.

L’aspetto tecnico più rilevante da notare è l’alternarsi sulla scena di luci ed ombre per agevolare l’immersione nella mente del protagonista, che parla per frammenti e non segue alcun filo logico nel suo monologare. La struttura tipica è che il personaggio viene illuminato dai riflettori, pronuncia una parte del suo discorso e, all’improvviso, irrompe una dissolvenza che tronca il suo discorso. Il monologo dunque in un certo senso comincia sempre a ogni nuovo frammento, ma non finisce mai, come la ricerca del senso e del bello. Il gioco delle luci restituisce poi bene il flusso anarchico e disorganizzato dei pensieri del personaggio sognante, che si ribellano alle imposizioni del mondo grigio della veglia.

È invece interessante notare che, al pubblico di non-addetti ai lavori, non è tanto il monologo anarcoide e frammentato ad aver disturbato il loro modo abitudinario di esperire il teatro. Piuttosto, ciò che è emerso spesso come disturbante sono invece i frammenti che mescolano gli elementi reali con altri immaginari, di cui è rappresentativa la cosiddetta “scena di Schettino”. Durante il momento dello spettacolo in cui il personaggio immagina di andare sulla luna, infatti, egli si abbandona a un’allucinazione delirante: suppone di rivolgersi al noto capitano della Concordia, chiedendogli di procedere nella navigazione senza rasentare troppo da vicino la superficie del satellite, con il rischio di far affondare la navicella spaziale. Nelle intenzioni di Perinelli, questa scena doveva suggerire ancora meglio la totale estraneità del protagonista dalla realtà e la pericolosità del suo cammino immaginativo, che sebbene esaltante corre sempre il rischio di condurlo alla follia. Ora, questo elemento è risultato probabilmente respingente allo spettatore perché avvezzo a separare gli elementi reali da quelli della finzione, come il proverbiale mulino biblico che divide il grano dal loglio. Sul piano operativo, il punto invita il pubblico ad affinare la proprietà sensibilità con il pensare che realtà e fiction possono essere mescolate, per costruire uno scenario terzo che né assomiglia alla prima, né è del tutto irreale come la seconda: a una visione poetica del mondo.

 

L’incidente è chiuso – foto di Roberto Biselli

 

Passando adesso a L’incidente è chiuso, entriamo stavolta in uno spettacolo apparentemente più lineare. Menoventi presenta uno studio del misterioso suicidio di Majakovskij del 1930, a partire dal romanzo-indagine di Serena Vitale Il defunto odiava i pettegolezzi, che sarà messo in scena per intero nel 2020. La compagnia sonda, seguendo la scrittrice, tutte le ipotesi che sono state fatte per spiegare il gesto estremo del poeta e le varie testimonianze orali o scritte che, fino al 1938, sono state raccolte allo scopo. Le possibili ragioni includono la simulazione del suicidio di Majakovskij da parte del governo stalinista, la morte per sfuggire alle tasse e alla malattia della sifilide, la follia ispirata da un violento litigio con la sua amante (l’attrice Nora Polonskaja), la delusione per la cattiva accoglienza di pubblico e critica della sua commedia Banja. Nessuna delle spiegazioni viene tuttavia favorita sulle altre. Esse sono prese, invece, come tasselli utili a costruire un mosaico più ingarbugliato, in cui è difficile individuare i nessi che hanno portato alla morte del poeta, così come dove risiede la realtà e dove l’invenzione. A livello scenico, l’accorgimento usato per spostarsi da un’ipotesi all’altra è assumere come personaggio principale dello spettacolo la Donna Fosforescente (interpretata da Consuelo Battiston): la protagonista della commedia Banja di Majakovskij, capace di andare avanti e indietro nel tempo a piacere, come noi nello spazio. Ella riesce così a guidare gli spettatori in una sorta di discesa agli inferi degli ultimi giorni del poeta. La Donna Fosforescente ora appare tra il pubblico che ascolta le parole dell’ultima conferenza di Majakovskij, ora si sposta nella stanza in cui anni dopo Nora depone a una giornalista una versione del suo litigio col poeta completamente differente da quella rilasciata nel 1930, ora si manifesta nella serata in cui Banja fa il suo fiasco clamoroso. Ne deriva la totale relatività degli eventi, perché essi trovano tutti la loro origine e il loro senso dal gesto estremo del poeta, al pare dei raggi di luce dal sole. È infatti il suicidio di Majakovskij che dà sostanza e mistero a questi avvenimenti altrimenti insignificanti. In un certo senso, Menoventi suggerisce allora che non è stato uno o più di questi eventi ad aver causato la morte dal poeta, ma proprio il contrario. Fu lo sparo di Majakovskij ad aver dato vita e significato a tali avvenimenti.

Il suicidio concreto di Majakovskij diventa così un pretesto per condurre una riflessione sul tempo, o sulla problematicità dei nessi per noi intuitivi di causa-effetto. Si pensa normalmente che la temporalità proceda in linea retta: il passato è lasciato indietro dal presente, che a sua volta genera il futuro, il quale diventa presto passato, e così all’infinito. Gli eventi seguono perciò una catena delle cause, dove l’attimo precedente genera quello seguente. Ora, L’incidente è chiuso suggerisce che la morte di Majakovskij è un lampante esempio di come questa facile e cristallina rete causale sia una semplificazione della mente. Se infatti è la morte del poeta ad aver generato tutti gli eventi ad essa correlati, dal litigio con Nora al fiasco di Banja, la conseguenza che se ne trae è che il futuro causa il passato e che esiste una sorta di eterno presente, in cui tutti questi eventi sono simultanei. Paradossalmente, questa ipotesi poetica troverebbe, per Menoventi, persino una conferma filologica. Majakovskij fu dopo tutto il poeta che, in quasi tutte le sue opere, confessava di vivere nel futuro e di intuire che il presente non è per niente dinamico o fuggevole, essendo piuttosto un’immagine mobile e indistruttibile dell’eternità («Io / come voi / ho l’eternità di scorta. / Che sarà mai / per noi / perdere un’oretta o due?»).

La discussione avvenuta col pubblico in merito a questa bizzarra concezione lasciò, ovviamente, numerosi spettatori nel dubbio e nell’imbarazzo. La motivazione è che le persone abituate alla concezione del tempo della rassegna “On” ragionano in termini tutto sommato aristotelici. Il paradigma della Fisica e della Poetica di Aristotele è stato infatti quello che, per ragioni storiche che sarebbe lungo sintetizzare, si è imposto nel senso comune umano. Secondo il pensiero aristotelico, la temporalità sarebbe la misura del movimento che procede linearmente da un istante all’altro, mentre il teatro è considerato, tra le varie cose, un organismo che obbedisce alle unità di tempo, di luogo e di azione. L’accostamento della rassegna “Off” e di quella “On” di Todi Festival 2019 può dunque essere stimolante per il pubblico. Esso consente di paragonare due diversi modi di concepire il divenire temporale e di riflettere su quale dei due si avvicini di più al vero.

 

Mater Dei – foto di Roberto Biselli

 

L’ultimo lavoro della rassegna “Off” (Mater Dei) consiste infine nella messa in scena di un inedito di Massimo Sgorbani. Il drammaturgo immagina una variante del mito di Zeus ed Europa, in cui il dio assume le fattezze di un enorme toro e ingravida la donna mortale (qui incarnata da Giorgia Cerruti) di cui si è innamorato. L’unione porta alla nascita di tredici figli: dodici sono possenti e divini come il padre, mentre il tredicesimo (Davide Giglio) è deforme, muto e più debole non solo di una divinità, ma persino di un essere umano. La madre lo nasconde dunque alla vista di Zeus, con la speranza che questi non scopra la sua prole degenere e non la elimini. Il dramma si consuma, per il resto, nella relazione di Europa verso il figlio, a cui racconta ripetutamente la storia della sua unione con il dio e le angosce della maternità, dove si mescolano amore e odio, carnalità e spiritualità, degradazione e potenza del divino. Questi discorsi non servono però tanto ad informare, non avvengono insomma sul piano del logos e della ragione. Il figlio di Europa non può infatti comprendere il linguaggio, essendo addirittura incapace di pronunciare il suo nome – solo alla fine egli sussurrerà a fatica la parola “mamma”, attirando così l’attenzione di Zeus e portando la vicenda alla sua tragica fine. I racconti della donna assolvono semmai la funzione primitiva di calmare la sua creatura, di trattenerla e di impedirle di uscire, dunque sono puri suoni che sono efficaci per il loro ritmo e per la loro materialità, più che per il loro significato. Sul piano scenico, tutto ciò è tradotto dagli attori con una recitazione che calca l’aspetto sensuale della lingua e molto meno su quello logico-verbale.

Mater Dei è allora interessante perché sottolinea l’atroce verità che porta con sé la corporeità. Nello spettacolo, infatti, tutto è corpo. Lo è la parola che trattiene il figlio alla madre, lo è la figura di Europa che ha fatto accendere Zeus di desiderio, lo è persino la divinità stessa, che anzi nel vedere la progenie imperfetta riconosce un grande pericolo per la sua esistenza. Se dopo tutto da un dio può discendere un essere debole e mortale, allora la sua natura deve essere caratterizzata da debolezza e mortalità. Un corpo che non può mentire risulta allora uno scandalo, perché si rivela essere più sapiente della parola e della ragione, che sostengono a torto che la definizione vera di divinità sia quella di “vivente per natura indissolubile e beato”.

Anche questa considerazione di Mater Dei è risultata essere un aspetto che ha turbato gli spettatori più tradizionali della rassegna “On”. Una spiegazione plausibile può risiedere nell’ipotesi che la scena della tradizione mette in primo piano la comunicazione basata sulla parola e sulla ragione discorsiva, laddove invece la drammaturgia e il lavoro sull’attore degli artisti “Off” propende più per il piano materico, sensuale, ritmico. Ancora una volta, tale contrasto può diventare una risorsa conoscitiva e di confronto, se si trattiene la tentazione di stabilire gerarchie e classiche, con la presunzione di sapere in quale tipo di rassegna il teatro si manifesti nella sua interezza.

Possiamo pertanto concludere, da questa sommaria analisi, come le scelte artistiche di Todi Festival 2019 possano essere molto utili per problematizzare le convinzioni del modo tradizionale di coltivare l’arte teatrale, nonché a invitare sia il pubblico che gli operatori in dialogo serrato. Forse l’unica debolezza di questa distinzione “Off” e “On” sta nel rischio di far pensare che nelle modalità performative tradizionali non vi sia ricerca innovativa. Ciò mette in ombra alcuni artisti “On” che nella forma risultano essere forse più aderenti a una certa tradizione estetica, ma che nel contenuto si cimentano in percorsi di ricerca a volte più all’avanguardia di quelli “Off” che si propongono di rompere ogni canone precedente. Valga un unico esempio. La rassegna “On” ha ospitato Thebas Land di Sergio Blanco, drammaturgo che, appunto, ricorre agli strumenti del teatro di regia per far deflagrare totalmente le categorie della scena tradizionale. Secondo l’artista, andrebbe abolita persino la distinzione prima accennata tra realtà e finzione. Thebas Land e altre opere di Blanco si muovono, del resto, sotto il principio estetico promettente dell’«auto-finzione», in cui si mescolano elementi reali e immaginari per renderli del tutto equivalenti. In un evento della realtà ci può essere qualcosa di completamente immaginario, mentre anche la fantasticheria più assurda conserva una qualche traccia della realtà. (Per approfondire, si consiglia la lettura di S. Blanco, Autofinzione. L’ingegneria dell’io, traduzione di A. Canneddu, Bologna-Imola, CUE Press, 2019).

Il suggerimento che discende da questo mio singolo dubbio è allora l’ipotesi di procedere nel futuro a una divisione meno netta tra “On” e “Off”, provando ad andare in direzione di una contaminazione produttiva e dialettica. Sarebbe interessante provare a riflettere su quali siano le componenti innovative di buona parte della scena apparentemente più tradizionale e, per converso, quali aspetti della tradizione non possono essere eliminati persino dal lavoro più trasgressivo e controcorrente (e.g., la semplice ma fondamentale relazione diretta tra attore e spettatore), senza compromettere l’esistenza stessa del teatro. Se avrà successo, questo proposito potrebbe forse portare alla creazione di una sorta di rassegna “On-Off”, dove tradizione e innovazione non entrano in conflitto, bensì collaborano nel far emergere le potenzialità della scena, per molti aspetti ancora tutte da scoprire.

 

ENRICO PIERGIACOMI

 

[L’articolo contiene la sintesi delle riflessioni svolte negli incontri col pubblico dopo i tre spettacoli della rassegna Todi Off #3 – Futuro Anteriore, con l’aggiunta di alcune più generali considerazioni metodologiche]

I tre spettacoli “Off” sono stati allestiti nel Teatro Nido dell’Aquila di Todi (29-31/08/2019). Tebas Land è stato visto al di fuori del festival, nel Teatro di Rifredi di Firenze, 27/10/2019.

Per approfondire: http://www.todifestival.it/pdf/TF2019_Programma.pdf