Quale futuro per le sale cinematografiche indipendenti?

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Immersi in quest’aria di ripartenza, segnata da vincoli e da difficoltà, il settore cinematografico ed in particolare il vasto gruppo degli esercenti delle sale sembra essere tra i più dimenticati. La Lettera aperta per il sostegno all’esercizio cinematografico indipendenteè nata per rispondere alla necessità di dare una voce anche a questa realtà, mettendo insieme le idee e le esigenze di un comparto che, essendo sempre stato piuttosto debole, in questo preciso momento sta soffrendo una mancanza di attenzione alle proprie esigenze. Una necessità dettata anche dal timore, sempre più concreto, che la visione privata dei film, a cui questo periodo più che mai ci ha abituati, possa mettere in discussione l’importanza dalle sale cinematografiche all’interno del proprio territorio di riferimento.

Una serie di preoccupazioni a proposito del futuro che ben emergono dalle parole di Roberto Naccari, fondatore e direttore dell’associazione Dogville Circolo Cinematografico, gestore e responsabile della programmazione del Supercinema di Santarcangelo, direttore generale di Santarcangelo dei Teatri nonché uno dei firmatari di questa lettera.

Nella lettera si parla del cinema come uno di quei settori percepiti come non strettamente “necessari”. Perché invece andrebbe considerato estremamente importante all’interno di una comunità?

“Rispetto alla mia personale esperienza a Santarcangelo, dove lavoro da più di vent’anni, credo di aver ricevuto molto più riscontro dalla cittadina per aver assunto la gestione del Supercinema con un gruppo di amici, che per le mie altre attività con il teatro e il Festival. Effettivamente, nel caso del cinema, si tratta di un consumo più articolato, lungo tutto l’arco dell’anno, in grado di creare davvero un momento d’incontro soprattutto per una piccola comunità come quella di Santarcangelo. La riapertura del cinema è stata un momento importante per la comunità. È molto bello quando giri per il paese e ci sono persone che sanno che ti occupi della programmazione del cinema e ti fanno i complimenti e ti ringraziano perché gli hai ridato uno sfogo, una passione. È chiaro che, ad un certo punto, nella programmazione di un cinema, è come se iniziassi un dialogo con una comunità di spettatori. Questo vale soprattutto per le sale delle piccole città che hanno ancora un ruolo molto importante a livello sociale.”

L’importanza della curatela per una sala indipendente risiede dunque nella costruzione di un’identità?

“All’inizio, io sono partito a programmare il Supercinema cercando di inseguire anche un po’ il pubblico. Sperimentavo, anche con film che non mi piacevano particolarmente, per cercare di capire i loro interessi. Poi, ad un certo punto, ho visto che stavo sbagliando regolarmente e a volte proprio con i film che non erano neanche la mia passione. Allora mi sono detto: «Va bene, a questo punto allora programmo solo i film che piacciono a me e che mi interessano». Questo ha dato un’identità maggiore alla programmazione e vedo che alle persone piace. Poi ogni tanto, per vari motivi, capita di dare film che non c’entrano molto con la tua programmazione. Si tratta a volte anche di imposizioni: sappiamo che l’esercizio cinematografico non è proprio un mercato liberissimo. Una cosa bella è stata vedere che per alcuni di questi film, che magari andavano forti in altre sale, a Santarcangelo il pubblico non veniva. Questo mi ha permesso di migliorare anche i rapporti con le agenzie, che hanno smesso di rifilarmi cose troppo strambe perché hanno capito che certi film da me non funzionano. Le piccole sale sagomano un po’ il loro pubblico a loro immagine e somiglianza. Per cui sì, hanno anche un ruolo identitario: ci va la gente a cui piace quel tipo di cinema, che ha un interesse di un determinato tipo e che dunque si aspetta un certo tipo di programmazione. Non si tratta solo di consumo, ma è anche una modalità di condividere una passione. D’altronde chi va ancora in sala con una certa regolarità è chiaro che ha dei gusti differenti rispetto a chi consuma in streaming.”

Perché la sala non può essere sostituita dalle piattaforme di streaming online? Cosa rende tanto fondamentale la visione condivisa?

“Non so cosa ci aspetta nel futuro, ma è chiaro che in questo momento un certo tipo di cinema esce mortificato dalla visione sui piccoli schermi. Inoltre, i meccanismi di attenzione che hai al cinema non esistono in una visione casalinga. Molto semplicemente, la visione collettiva cambia la percezione delle cose. Grazie al mio passato da documentarista ho potuto guardare i miei film in sala, nascosto tra il pubblico, e allora capisci che ogni volta la percezione cambia completamente. La risposta del pubblico: se ridono, quando ridono, come reagiscono. I pubblici e anche le nostre reazioni rispetto a un film cambiano a seconda di come viene percepito attorno a noi un film. Sappiamo benissimo che ci sono alcuni che ridono perché altri ridono. C’è un effetto percettivo che viene mutato. Poi ci sono quei momenti fantastici, le discussioni di quaranta minuti fuori dalla sala: tu li chiudi tutti fuori a forza e poi, quando dopo mezz’ora esci anche tu, li vedi ancora lì fuori a parlare. Queste cose sono impagabili. Sono quelle cose che nella visione privata non ci sono. La visione collettiva ha ancora una sua forza importante. Le emozioni si amplificano nella compartecipazione. Ad esempio, mi ricordo quando mi avevano chiamato perché un mio cortometraggio era stato preso al Festival di Locarno: ero da solo in casa e non potevo compartecipare questa gioia con nessuno. Era la metà del gusto. La condivisione è un aspetto importante, un elemento chiave per la società e il cinema in sala te lo assicura. È ovvio che il film di per sé è lo stesso che viene proiettato anche in un altro schermo, ma è l’atto di condividerlo che fa la vera forza della sala.”

Nella lettera si accenna anche alla possibilità di coniugare i servizi VOD con la fruizione in sala. In che modo?

“È un passaggio molto critico e delicato per la vita del cinema. Il settore dell’esercizio cinematografico è un settore che presenta dei margini risicatissimi, molto fragile e a rischio, e ovviamente, in questo momento di chiusura, tutta la filiera cinematografica cerca di sopravvivere e di cavarsela. Esiste una forte separazione in questo, non c’è nessun senso di appartenenza, secondo me, ad un unico mondo culturale o industria, se così la si vuole chiamare. Tra i diversi anelli della produzione, della distribuzione, delle agenzie e dell’esercizio non c’è unitarietà di intenti. Ognuno cerca di sopravvivere a suo modo, con una scarsa consapevolezza dell’interesse generale. Perciò ognuno cerca di ipotizzare delle strade, di riuscire a fare cose che, in altri momenti, non sarebbero state proponibili. Adesso, per l’appunto, è partito questo dibattito sulle piattaforme di visione streaming o on demand, che dovrebbero permettere di abbattere le finestre di programmazione, vale a dire sovvertire il tradizionale processo per cui un film prima deve passare in sala, poi sulle reti di servizi a pagamento, poi può arrivare in televisione. Insomma sono tutti step di liberalizzazione dei diritti dei film. Con i cinema chiusi, è chiaro che si stia ipotizzando di poter far accedere tramite queste piattaforme alla fruizione di film nuovi, mantenendo però un vincolo con le sale cinematografiche per cui l’acquisto di quel servizio porta una percentuale a una delle sale che aderiscono alla piattaforma. C’è stato un dibattito e anche tutta una serie di pressioni affinché le sale aderissero. Io vivo tutto questo in maniera un po’ surreale perché sono stato, fino a sei/otto mesi fa, a discutere con le associazioni di categoria perché ero uno di quegli esercenti che ha programmato in sala i film Netflix. Le associazioni di categoria infatti cercavano di boicottare questi prodotti, perché la trovata di Netflix di concedere un’uscita molto limitata in sala per poi vendere i film sulla piattaforma di fatto forzava un po’ le regole del sistema. Eppure adesso mi trovo con le stesse associazioni di categoria che non dicono nulla sul fatto che l’esercizio venga completamente bypassato e che la visione in sala dovrebbe avallare l’uscita dei film direttamente sulle piattaforme.”

Come hanno reagito gli esercenti a questa situazione?

“Personalmente, io da un lato mi sento un po’ depresso nel vedere la scarsa capacità di iniziativa delle associazioni di categoria dell’esercizio cinematografico. Dall’altra parte, però, vedo dei segnali interessanti perché per la prima volta una serie di esercenti, prima a livello di sale romagnole, poi a livello di sale regionali, condivide qualcosa come questa lettera. Gli esercenti cinematografici per la prima volta si stanno confrontando tra di loro, hanno avviato un dialogo che non c’è mai stato, bypassando un po’ le associazioni di categoria, forse anche nella consapevolezza che se c’è una mancanza di azione e di condivisione con le scelte delle associazioni, un po’ è colpa anche di noi esercenti che non ci siamo abbastanza occupati di loro. In fondo, siamo noi che li nominiamo, quindi è chiaro che se non partecipi alla vita associativa poi ti ritrovi dei rappresentati che evidentemente hanno altre idee e strategie. Ci siamo quindi finalmente ritrovati e abbiamo cominciato, sopraffatti dalla crisi e dai cinema chiusi, a chiederci che cosa si può fare. Abbiamo avviato una pratica di confronto ma anche di possibili idee di collaborazione e questo lo trovo assolutamente molto positivo. Certo bisogna ancora darsi molto da fare perché è evidente che l’esercizio cinematografico è ancora considerato l’ultimo anello della catena cinematografica e il più debole. Soprattutto se lo intendiamo in termini di sale indipendenti che hanno una forza di dialogo minimale con la rete di distribuzione. Se le sale indipendenti restano divise, come lo sono state per lungo tempo, la loro forza è nulla. Per questo è importante la messa in condivisione dei problemi che condividiamo. Gli esercenti cinematografici hanno preso la buona abitudine di dialogare tra loro per difendere i propri interessi, di mettersi in prima battuta, non solo di farsi rappresentare dalle associazioni.”

Qual è quindi lo scopo principale della lettera?

“La lettera serviva in questo momento per ribadire tutta una serie di problematiche che esistono e confermare il ruolo che hanno le sale nel contesto culturale. Serviva anche per il nostro pubblico, perché siamo consapevoli che molti dei nostri spettatori non hanno idea di quali sono i vincoli di mercato che ci portano a poter programmare un film e non un altro o di poterlo fare solo con un estremo ritardo perché, nelle strategie della distribuzione, le sale indipendenti vengono dietro ad altre piazze che sono più forti. Il punto è cercare di far sentire anche la voce dell’esercizio cinematografico in un momento in cui sembra un po’ assente.”

Si sono avanzate delle ipotesi sulla futura riapertura, anche nel caso specifico del Supercinema?

“In questo momento la situazione è un po’ complessa. Abbiamo delle indicazioni temporali, ma anche dei vincoli che, su un settore già molto fragile, potrebbero rendere non economica e non fattibile la riapertura. Ad esempio, al Supercinema io ho due sale, una grande da quasi trecento posti, una più piccola da cento.  Se riduco la capienza di quella grande, magari non ho grandissimi problemi perché di tutto esaurito ne posso fare relativamente pochi, però ridurre la più piccola a trentacinque o quaranta posti diventa poco redditizio. Ci sono una serie di vincoli che non so quando permetteranno di pensare alla riapertura. A questo va aggiunta anche la mancanza di prodotto, perché in questo momento non stanno uscendo titoli particolarmente interessanti. Perciò la riapertura può essere problematica. Nel caso specifico di Santarcangelo tutto questo può essere abbastanza relativo perché noi di solito chiudiamo l’attività a giugno per riprenderla a settembre, quindi il problema ci si riproporrà più avanti. Però sento anche molti miei colleghi che dicono che, in queste condizioni, preferiscono tenere il cinema chiuso. La sensazione è che con le regole attuali il comparto cinematografico farà molta fatica a ripartire.

A tutto questo va poi aggiunto che, mentre si parla di contributi e di tutta una serie di finanziamenti che dovrebbero sostenere le attività culturali in Italia, i premi d’Essai del 2018, che già sono stati stabiliti con estremo ritardo, sono stati bloccati per un problema che non è molto chiaro neanche a noi. Perciò invece di ricevere sostegni in relazione al lockdown che abbiamo appena subito, non riusciamo nemmeno ad avere contributi che ci sono dovuti di due anni fa. Parallelamente, per quanto riguarda il tax credit devoluto per le sale, il Ministero non disponeva di tutti i soldi che servivano all’esercizio, per cui le domande sono state aperte la mattina presto e chiuse in serata, lasciando fuori numerosissime sale perché avevano esaurito i soldi disposizione. Si tratta quindi di un settore in estrema difficoltà: non solo perché ha perso tantissimi soldi a causa del lockdown e perché non ha chiare prospettive di riapertura, ma anche perché non sta ricevendo contributi straordinari che dovrebbero essere erogati dal Ministero per sostenere il comparto e addirittura non riesce nemmeno a ricevere soldi che avrebbe dovuto avere in via ordinaria. La situazione è abbastanza catastrofica, surreale e un po’ sconfortante. Stiamo cercando di capire se, in questa enorme confusione che regna sovrana, cominciano ad arrivare delle indicazioni un po’ più confortanti. Vedere come viene trattato questo comparto e come ci sia poca chiarezza di direttive di rilancio del settore è una cosa che sconforta. In tutta questa confusione, io mi auguro che le associazioni di categoria comincino a rappresentare meglio i nostri interessi. In questo momento non vedo l’atteggiamento giusto, il giusto livello di pressione sull’amministrazione centrale e sul Ministero. Però mi consola vedere qualche segno di reazione dal basso, dagli esercenti cinematografici che hanno cominciato a dialogare.”