Le parole di Carlo Cresto-Dina, fondatore e direttore della casa di produzione “tempesta”, rappresentano il sesto incontro con i nostri dialoghi insieme agli operatori culturali. Corpo Celeste, Le Meraviglie e Lazzaro Felice di Alice Rohrwacher, L’intervallo e L’intrusa di Leonardo Di Costanzo sono solo alcuni dei titoli dei film prodotti dalla società di produzione, particolarmente attiva anche nel sostenere numerosi giovani autori europei di grande talento.
Partiamo dal lato puramente pragmatico, forse scontato. L’Arte e la Cultura sono anche mestieri. Realisticamente come vedi il ritorno in pista? Ci può essere, con quali accorgimenti e con quali strategie? E con quali tempi. E quali sono i danni?
“Domande ovviamente enormi in questo momento, ansiogene per non dire angoscianti. Nessuno sa prevedere. Apparentemente le strategie possono essere ovvie e “semplici”: dare subito mezzi e finanze a chi produce, in una parola cash, prima di tutto per cercare di preservare i posti di lavoro esistenti e poi per tornare a crescere. Vale per chi produce cinema come per chi produce tondini. Ma come? Qual è il modo migliore, diretto e insieme trasparente? E, ancora più importante, a che condizioni, verso quale crescita? La folle, esiziale crescita-per-la-crescita che la pandemia ha azzoppato nella sua corsa? Oppure un tentativo di miglioramento evolutivo?
Ci sono economisti che stanno lavorando in modo molto intelligente per proporre soluzioni. La Danimarca ha escluso da qualsiasi beneficio le imprese che hanno sedi o legami nei paradisi fiscali, altri propongono di “salvare” le linee aeree solo se si impegnano ad un drastico programma di riduzione dell’impatto ambientale. Ecco, io questi ragionamenti nel mondo dell’arte e della cultura non li sento ancora fare.
Chiediamo denaro pubblico, ma per cosa? Per un ritorno fotocopia al modello precedente? Chiediamo di distrarre denaro pubblico che potrebbe servire, retoricamente, a costruire scuole e ospedali, per farne che invece? Dovremmo chiederci che cosa significhi produrre valore pubblico con denaro pubblico.
Dovremmo intendere così il nostro lavoro, evitando scorciatoie didascaliche, esigendo la più grande libertà, ma con senso di responsabilità, Ripeto: chiediamo denaro pubblico in un tempo di crisi economica mai vista.”
Tolte le diverse declinazioni della “distanza sociale” in atto nei vari stati, esiste, e si sta intravedendo – magari proprio dall’osservatorio speciale delle nostre “professioni” – un limite oltre al quale la tutela statistica della salute rischia di ammalare troppo una civiltà, da altri punti di vista? Economico, ma non solo.
“Capisco il rischio ma c’è poco da dire, tocca ascoltare i sanitari e basta. C’è un dato ineluttabile: dobbiamo fare tutto il possibile per contenere il contagio perché la diffusione naturale dell’epidemia in crescita esponenziale semplicemente travolgerebbe le nostre società. Basta immaginare per un secondo il presente disastro moltiplicato per dieci, per cento, con gli ospedali sommersi da migliaia di contagiati e quindi incapaci di curare tutte le altre patologie, i morti in casa, il progressivo incepparsi per manutenzione mancata delle infrastrutture, tra le prime la Rete, complicata e delicata ragnatela che in questa crisi, strutturalmente ma anche socialmente, c’ha salvato.
Certo tutto questo cambierà la nostra antropologia, ciò che andiamo capendo e patendo ce lo porteremo dentro per un pezzo. Ma questi movimenti, come ci ha ben spiegato Harari nel suo Sapiens vanno visti su prospettive secolari, se non millenarie. Cosa sarà di tutto questo tra cent’anni? Sarà la spinta decisiva per un progressivo distanziamento dei corpi? E cosa inventerà l’umanità per ritessere la sua tela sociale, che è ciò di cui siamo fatti? Certo, se uno pensa al sesso è un po’ triste.”
Qual è a tuo parere il ruolo, o almeno l’angolo di ingresso, dell’Arte, di un artista, e di un intellettuale, di un operatore culturale in questo dibattito? Può esistere una cultura europea, a maggior ragione mediterranea, senza una agorà fisica, senza un contatto fisico?
“Dicevamo di ripensare la crescita, capire il valore, preservare i rapporti: è evidente che in un’epoca così il ruolo della cultura e dell’arte è centrale. Spero che i nostri dirigenti, politici ed economici lo capiscano. Perché si tratta di nutrire l’immaginazione dell’umanità, renderla più ricca, ramificarla. In altre parole espandere e approfondire l’immaginazione che abbiamo degli altri, come li capiamo. Penso ad esempio alla danza, arte del corpo, cosa sta elaborando, cosa ha da dirci in questa epoca di isolamento dei corpi? Quanto a cultura Europea o Mediterranea, mi pare che questi concetti vadano visti sempre soltanto in direzione evolutiva: il problema non è “preservare” qualche tipo di cultura, ma capire se noi che produciamo cultura, siamo capaci di evolvere e quindi rimanere rilevanti. E io purtroppo vedo tante teste volte all’indietro, interessate a conservare le forme, non ad ibridarle per renderle più resilienti. Se facciamo così è naturale che diventeremo obsoleti presto.”