Santarcangelo Festival e il pre-giudizio

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foto © Claudia Borgia, Chiara Bruschini

 

A cosa serve tutto questo?

Dubbio lecito in tempi normali, doveroso in era (post) Covid.

Il sistema delle arti: artisti, spettatori, operatori, critici.

Da quest’ultima prospettiva, ora, ci accingiamo a condividere alcuni pensieri: una funzione che storicamente era preposta a connettere opere e fruitori e che ora, per quanto possibile svincolata da ogni pre-giudizio di gusto, è forse non del tutto inutile per porsi e porre qualche quesito.

Pre-giudizio: il nostro. Di guardanti occidentali.

Delle molte linee possibili, crediamo opportuno evidenziarne due, che la Direzione di Santarcangelo Festival 2050 ha portato a emersione.

La prima: semplificazione vs complessità.

La seconda: originalità vs ripetizione.

Coppie di opposti, se così si può sintetizzare, che in tutta evidenza si costituiscono del tutto culturalmente.

Detta malamente: per un occidentale medio ciò che è complesso è considerato più evoluto (dunque migliore) rispetto a ciò che è semplice. E l’originalità, soprattutto in ambito umanistico, è percepita come apprezzabile, rispetto alla mera reiterazione di modelli acquisiti.

Un monaco tibetano e un attore-danzatore dell’Opera di Pechino su questo avrebbero, forse, altre opinioni.

Ma noi, ça va sans dire, siamo osservatori occidentali: che lo vogliamo o no questi pregiudizi ci informano.

Una occasione per «guardarsi guardare», come direbbe Merleau-Ponty: è forse il maggior merito dell’edizione numero 50.

 

foto © Claudia Borgia, Chiara Bruschini

 

La nostra presenza a Santarcangelo si è aperta con una performance, vista nel grande spiazzo dello Sferisterio tra birre e tavolini ma che avrebbe potuto tranquillamente accadere in qualche Museo d’arte contemporanea: Giacomo Cossio, in una serra zeppa di piante in vaso, al suono di un cd riproducente le celeberrime Suite per violoncello solo di Bach e armato di spruzzatore, maschera e tuta lentamente ricopre di vernice fucsia (colore simbolo di questa edizione) foglie, rami, vasi. Si potrebbe sintetizzare: natura vs artificio, happening vs happened, presentazione vs rappresentazione, sarebbe lecito ricordare la Process Art, Beuys e non solo. Ma nel filo del nostro piccolo discorso quel che salta agli occhi è la riduzione del fatto artistico a un segno. Iper-semplificazione, del tutto figlia dei nostri tempi (less is more, ci insegnano i social): una proposizione artistica che si costituisce di un significante. Forse anche per questo potrebbe essere appropriata la collocazione in certi luoghi delle arti visive contemporanee (nei quali peraltro l’autore è attivo): opere sintetiche, massimamente estroflesse, leggibili nel loro farsi. Meglio: in cui l’accadere e il comunicare coincidono.

Analoga sintesi, ma riferita al fatto teatrale, costituisce l’esperienza proposta da El Conde de Torrefiel: si è in due, nello spazio vuoto del Lavatoio, guidati da una voce in cuffia. Per quindici minuti si è guardati compiere azioni, per altri quindici si osserva un’altra persona fare altrettanto. Il teatro richiede almeno un attore e uno spettatore, per esistere: chiaro.

 

foto © Claudia Borgia, Chiara Bruschini

 

Ateliersi declina tale attitudine comunicativa nel concepire un allestimento che veicola, soprattutto nella prima parte, un significante alla volta: una telecamera riprende nel silenzio lettere, buste e pagine di diversi numeri della rivista Ragazza In, una cui rubrica a cura di Lea Melandri è motore della creazione, poi una cantante esegue un brano, poi vi è un dialogo fra i due attori in scena, eccetera. Tale struttura nella seconda metà del lavoro vira verso uno sdoppiamento, con la coesistente presenza di più linguaggi, ma certo resta massimamente netta la tensione a rendere chiaro e leggibile il proprio discorso, lontano da certe criptiche costruzioni performative a cui siamo stati sottoposti, in passato.

Claudia Castellucci ha condotto, con sei bambini, un seminario di movimento ritmico seguito da un Ballo dato pubblicamente tra gli ulivi nell’orto dei frati Cappuccini, nella parte alta del paese. Scandita da una partitura sonora di campane registrate oltre mezzo secolo fa in un monastero francese, viene eseguita una semplice e misteriosa coreografia costituita da azioni concrete (saltare, spingere, stare, ruotare, …) e composizioni simboliche. Dal punto di vista formale Il trattamento delle onde, questo il titolo, ricorda grandemente -seppur in maniera semplificata- altri Balli proposti dalla scolarca della Societas, secondo un sistema di pensiero, vien da ipotizzare, che assume a valore non l’originalità, ma l’affondo ostinato in segni molto più vicini a una meditazione attraverso il movimento che a uno spettacolo.

 

foto © Claudia Borgia, Chiara Bruschini

 

Nella piazza principale di Santarcangelo Virgilio Sieni propone un ciclo di pubbliche Lezioni. In quella a cui abbiamo assistito punto di partenza e stimolo sono due opere di Antonello da Messina: l’Annunciata di Palermo (1476) e una Pietà degli stessi anni. Con estrema chiarezza nella parola e nel gesto, Sieni estrae alcuni particolari, in primis delle mani, dalle figure presenti nei due quadri e li compone in micro-sequenze che qualche decina di persona di ogni età è invitata ad eseguire. Il coreografo toscano con precisa limpidezza pone l’accento sulla ricchezza di esperienze e significati rintracciabili anche nel minimo spostamento, ad esempio, di un avambraccio. Non semplificazione vs complessità, ma semplificazione e complessità, dunque.

L’unico ospite straniero di questa edizione di Santarcangelo Festival, Benjamin Kahn, presenta una creazione, per e con Cherish Menzo, nella quale ostende una serie di manifestazioni di possibili categorie culturali: donna con abiti e movenze della tradizione africana, virago rock, ballerina sexy, ragazza acqua e sapone con jeans e maglioncino. Un discorso affatto elementare, che giustappone immagini e mette in evidenza immaginari del tutto comuni.

 

foto © Claudia Borgia, Chiara Bruschini

 

ZimmerFrei in Family Affair | Santarcangelo mette in video e in scena i corpi e i racconti, autobiografici e sentimentali, di diversi abitanti, di molte età e provenienze, sorta di object trouvé cui il gesto dell’artista dà risonanza e valore estetico. Si crea un trebbo, «luogo di ritrovo delle famiglie allargate», massimamente accogliente. Il portato politico e sociale dell’operazione è evidente: anche, ma non solo, per la vivace presenza tra il pubblico, di amici parenti delle persone in scena, che salutano, applaudono, abbracciano – concreta possibilità di allargare la fruizione delle «stramberie del contemporaneo» anche a un pubblico altro, diverso dalle solite facce in cui ci si imbatte in ogni Festival e teatro.

Di altre due creazioni, Tiresias di Giorgina Pi / Bluemotion e Black Dick di Alessandro Berti, rifletteremo altrove più diffusamente, mentre de I sommersi e i salvati di Fanny & Alexander già abbiamo scritto.

Le ultime proposizioni da noi incontrate, un frammento di Tabù di quotidiana.com e Fake Uniforms (public lecture) di Sara Leghissa / Strasse, problematizzano con forte evidenza le questioni poste in apertura di queste poche righe.

Roberto Scappin e Paola Vannoni affrontano il tema indicato dal titolo con una lingua scenica, che negli anni hanno con sempre maggiore esattezza messo a punto, fatta di serrati dialoghi, frasi brevi, asciutta e disincantata ironia, immobilità o minimi esatti movimenti degli arti e del busto, episodici disequilibri del corpo e della parola e pacata, intelligente ferocia. Noncuranti della sempre più pressante richiesta di novità, i due proseguono un personale, ininterrotto discorso: «Il trauma non è il sesso, è il linguaggio».

Sara Leghissa, nei panni di un attacchino, affigge su alcune plance metalliche in Piazza Ganganelli una serie di manifesti bianchi con grandi scritte nere, uno sull’altro, ad articolare un discorso, ancora, su sorveglianza, legalità, controllo sociale, trasgressione. Si torna, in chiusura, al segno unico che ha aperto il “nostro” Festival: là Giacomo Cossio a coprire di vernice le piante in vaso, qui la co-fondatrice di Strasse a portare un significante. Ancora vien da pensare al gesto di alcuni esponenti delle arti visive contemporanee: conciso, massimamente leggibile e sintetizzabile. Less is more, appunto.

Certo nella comunicazione, nell’anno di grazia 2020, ma forse anche nella percezione e nel pre-giudizio che danno forma a creazioni che del sistema sociale, ancor prima che dell’arte, sono termometro e motore.

«L’appello fatto al discorso, all’immaginazione drammatica, al silenzio, tutti questi esercizi interiori di contemplazione e di supplica possono a loro volta restare senza effetto; non vi sono né legami decisivi né di continuità reale tra tali esercizi e l’estasi; c’è al contrario un intervallo infinito che si supera con un salto, che si può non superare mai e che forse si supera solo per caso. Ciò che si chiama la grazia conserva il suo valore come il principio di una decisione ingiustificabile e gratuita. È il tratto di dadi “fortunato” che mi permette, non di vincere, ma di giocare sino in fondo».
Maurice Blanchot, a proposito de L’esperienza interiore di Georges Bataille.

 

MICHELE PASCARELLA

 

info: https://www.santarcangelofestival.com/