Filippo Vendemmiati racconta “Gli anni che cantano”

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Continua la programmazione del Soundscreen Film Festival a Ravenna con le proiezioni dei lungometraggi in concorso: giovedì 1 ottobre sarà il turno di Gli anni che cantano del regista e giornalista Filippo Vendemmiati. Un documentario dedicato alla storia del Canzoniere delle Lame, gruppo di musica, politica e impegno sociale nato a Bologna nel 1967.

«Il film è partito dalla richiesta di valorizzare un archivio già preesistente e conservato in una biblioteca del quartiere Navile di Bologna», racconta il regista. «Alcuni anni fa, uno dei componenti fondatori del Canzoniere delle Lame, Gianfranco Ginestri, ha donato al Comune di Bologna questo archivio composto da vari scaffali e librerie contenenti rassegna stampa, video, registrazioni in super8, audio, dischi. Insomma, tutto quanto aveva a che fare con il Canzoniere delle Lame. Mi fu chiesto di cercare di capire che valore potesse avere questo materiale, che racconta non solo la storia del gruppo, dal 67 fino a metà degli anni Ottanta, ma anche buona parte della storia musicale, politica e sociale di Bologna. Da qui è nata l’idea di girare un documentario».

Di quali materiali si compone il film?

«Non avevo intenzione di realizzare un documentario classico, utilizzando il repertorio e l’intervista diretta in prima persona dei protagonisti o di altri soggetti. La vivacità che emergeva da tutto questo materiale, a partire dal tipo di musica, dagli aneddoti e soprattutto dall’allegria oltre che dall’evidente impegno politico di questo gruppo, mi ha trasmesso la voglia di costruire una sorta di viaggio musicale on the road nel corso del quale i componenti del gruppo mi raccontassero quello che avevano vissuto in quegli anni. Ho chiesto loro di ripercorrere i loro ricordi a bordo di un pulmino rosso che rappresenta simbolicamente il mezzo da loro usato in quegli anni per spostarsi in giro per l’Italia e per il mondo. Il pulmino era emblema del loro stare insieme: al suo interno infatti sono nati gli amori e le amicizie di un gruppo di giovanissimi».

Tutti i documentari da lei realizzati hanno sfondi politici e sociali. Non è un caso dunque che, nel momento in cui la musica diventa protagonista del film, lei abbia scelto proprio quel tipo di musica impegnata

«Io vengo qualche anno dopo il Canzoniere delle Lame e sono cresciuto con i cantautori italiani e con alcuni gruppi inglesi ed americani, però comunque conoscevo le loro musiche. Era la prima volta che mi cimentavo in un rapporto così diretto con la musica. Non volevo realizzare un film nostalgico e neanche concentrarmi unicamente sull’impegno politico delle loro musiche, che certamente era molto forte ed è stato un tratto distintivo del loro gruppo. Tuttavia quello che li ha uniti, e che continua a unirli ancora oggi, è un forte senso di amicizia e di solidarietà comune ed è proprio questo che ho cercato di trasmettere con il film. Loro in questi anni hanno vissuto un’adolescenza straordinaria, fatta di esperienze incredibili, divertenti e gratificanti che ancora oggi si portano dentro. Ancora oggi brillano loro gli occhi quando raccontano ciò che hanno fatto, perché lo hanno fatto con grande voglia e divertimento, interrompendola nel momento migliore, prima che degenerasse o prendesse altre forme, meno divertenti e anche troppo impegnate».

Qual è il ruolo della musica all’interno del film?  

«Il film si basa in parte sulle colonne sonore originali, alcune registrate su disco, altre che fanno parte dell’archivio e che sono tratte dai loro concerti. In alcune situazioni io ho provato a far ascoltare loro queste registrazioni. È stato bello perché subito scattava una sorta di identificazione e di stimolo reciproco per cui la parte registrata dal vivo e ascoltata attraverso gli altoparlanti veniva subito subissata da loro stessi che cantavano. C’è stato un mescolarsi tra passato e presente: loro hanno rivissuto questi momenti continuando a cantarli ancora. Si tratta di una memoria molto viva e molto sentita e la musica ha rappresentato un ponte tra passato e presente. La musica in questo caso dunque non è solo una colonna sonora, ma fa parte della narrazione del film stesso».

Ma anche della produzione e realizzazione del film, perché ha permesso di girare determinate scene che inizialmente non si erano immaginate

«Esatto. Tra l’altro loro non conoscevamo molti di quei materiali, quindi è stata una sorpresa anche per loro rivedersi in certe situazioni»

Lei, prima che regista, è giornalista. Perché ad un certo punto ha sentito la necessità di mettersi alla prova anche nel cinema?

«Tutto è nato dalla vicenda di Federico Aldrovandi a cui è dedicato il mio primo documentario. Al tempo, io seguii come giornalista questa vicenda e mi accorsi che sentivo il bisogno di poter raccontare quella storia nella sua interezza, dall’inizio alla fine, oltre gli spazi di un minuto e venti che mi erano concessi dal mio mestiere di giornalista televisivo. Era una storia che meritava di essere raccontata tutta: le problematiche che si portava dietro avevano a che fare con la storia dell’informazione, della giustizia, dei diritti, della tutela delle persone deboli. Quest’esperienza mi fece capire che cominciavo a sentirmi un po’ stretto nelle gabbie del giornalismo televisivo e che avevo bisogno di maggiore libertà. È un bisogno di raccontare le cose nella loro totalità e forse anche la passione nel poter raccontare le storie delle persone, con le quali empatizzo sempre molto, tant’è vero che in genere rimango in ottimi rapporti con queste persone. Anche questa del Canzoniere delle Lame mi sembrava una bella storia che meritava di essere raccontata perché riguarda non solo una parte importante della nostra storia, ma anche tematiche come l’essere giovani, l’impegno musicale, il rapporto tra le persone».

In un momento in cui i festival optano sempre di più per una forma online, qual è l’importanza invece rappresentata da questo tipo di esperienze dal vivo secondo lei?

«Il rapporto diretto con il pubblico e con il proprio prodotto non ha eguali e non c’è audience televisiva o streaming che possa darti tanto quanto un film visto in sala a contatto con la gente. Capire come il pubblico risponde ai vari passaggi del film, vedere se sono quelli che avevi previsto oppure no, poter rispondere alle sue domane: questa è la magia del cinema e della sala. Quando un film va in sala non ti appartiene più, diventa del pubblico. È straordinario poter vedere dalla parte del pubblico il proprio film, perché è come se fossero due cose diverse. Questi festival e queste persone che tra tante fatiche, difficoltà e paure vanno avanti e riprendono la loro programmazione in presenza sono degni di lode».

info: soundscreen.org/it/