Telegrammi dalla Mostra del Cinema di Venezia n. 77

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Una breve guida su alcuni film visti alla Mostra del Cinema di Venezia che sono già in programmazione nelle sale cinematografiche. Non siamo diventati improvvisamente nazionalisti: se il film che seguono sono tutti italiani è perché questo al momento offre la distribuzione.

Non odiare, di Mauro Mancini, Italia-Polonia 2020 (***) – Settimana della Critica

Dopo la proiezione ufficiale del film, in sala Perla, il regista ha spiegato al pubblico di avere preso ispirazione da un fatto realmente accaduto. Alcuni anni fa, in Germania, un chirurgo di origini ebraiche si rifiutò di eseguire un intervento dopo aver scoperto, sul corpo del paziente, un tatuaggio nazista. Questo spunto nel film viene ulteriormente drammatizzato, fino a farlo diventare una questione di vita o di morte. Siamo a Trieste e Simone Segre (Alessandro Gasmann) è un medico, anch’egli di origine ebraica. In una remota valle tra i monti si trova a prestare soccorso ad un uomo, ferito gravemente dopo uno scontro automobilistico. Tampona l’emorragia che potrebbe essergli fatale, ma decide poi di farlo morire quando scopre, attraverso i tatuaggi che ha inciso sul corpo, la sua appartenenza ai gruppuscoli dell’estrema destra fascista. Travolto dal rimorso e dai sensi di colpa, si mette sulle tracce della sua famiglia, che scopre essere in gravi difficoltà economiche, e decide di aiutarla, con discrezione, assumendo la figlia, Marica (Sara Serraiocco), come collaboratrice domestica. Scatenando in questo modo la reazione rabbiosa del fratello adolescente, Marcello, un fascista in erba.

Il film ci mostra le ragioni soggettive che sono alla base dell’odio che motiva i comportamenti dei suoi protagonisti (e indirettamente ci parla dell’odio quale potente motore dei comportamenti sociali nelle nostre società). L’odio di Simone, incapace di vedere un uomo come lui, nell’essere in fin di vita che abbandona alla morte. Non molto diverso dal rancore sordo che ha sempre provato verso il padre, da poco scomparso, a cui non ha mai perdonato, senza avere forse mai cercato davvero di capirlo, il fatto di essere riuscito a sopravvivere nel campo di sterminio tedesco in cui era stato imprigionato, grazie alla sua arrendevole disponibilità a curare i militari delle SS. L’odio di Marcello, che sfoga la propria rabbia verso i facili capri espiatori che il branco gli indica. Ad un certo punto Marcello e Simone si troveranno l’uno di fonte all’altro, in una situazione nella quale, di nuovo, può essere in gioco una vita. Qualcosa che matura nella coscienza di Marcello (che vediamo nascere nel rapporto che si instaura con Marica, in quel prendersi carico dei destini di un’altra persona, dapprima in un senso solo materiale e poi anche emotivo) fa affiorare ora un sentimento di empatia, di solidarietà, grazie al quale ad apparire in risalto sono le cose che uniscono gli uomini, prima ancora di quelle che li dividono. Il più potente antidoto all’odio.

Notturno, di Gianfranco Rosi, Italia 2020 (**1/2) – Concorso

Questo documentario è il frutto di riprese effettuate durante un periodo di circa tre anni in quell’area del Medio Oriente collocata tra Siria, Libano, Turchia e Iraq (se non ricordiamo male nei titoli di testa si fa riferimento anche al Kurdistan, ossia all’area geografica abitata da un popolo rimasto senza Stato), nella quale, a seguito alla dissoluzione dell’impero ottomano, le potenze coloniale crearono confini politici artificiali e che è sempre stata caratterizzata da tensioni e conflitti, particolarmente intensi negli ultimi anni, dei quali sono vittime, spesso innocenti, le popolazioni. Questo è quanto ci viene detto dal regista, con una didascalia, all’inizio del film. Le immagini ci mostrano alcuni frammenti di storie, senza alcuna informazione diretta a contestualizzarle. Vediamo alcuni madri piangere i propri figli nella prigione, ora abbandonata, nella quale sono stati torturati e uccisi; dei bambini raccontare e disegnare quanto hanno visto fare ai soldati dell’ISIS e il cui ricordo ancora affiora nei loro incubi; in altre immagini quegli stessi soldati, avvolti in tute arancione, vivono ammassati in una angusta prigione. Vediamo un cacciatore di frodo spingere la sua canoa lungo gli stretti canali di una palude, illuminati dal bagliore delle fiamme dei pozzi petroliferi. Queste ed altre storie. Mostrate con immagini di ricercata bellezza formale.

Il film è stato accolto piuttosto positivamente dalla critica, italiana e non solo, che ne ha fatto uno dei candidati più accreditati per il leone d’oro. La Giuria lo ha invece ignorato nell’attribuzione dei premi (va detto che Rosi aveva già vinto a Venezia con Sacro GRA, nel 2013). Non sono mancate però analisi critiche più problematiche. Ad esempio vi è chi si è chiesto “se e quanto sia legittimo manipolare la realtà, reinscenarla, per generarne un oggetto cinematografico che ha l’esplicita ambizione di essere oggetto poetico, soprattutto in uno scenario di violenza e dolore come quello che è al centro di Notturno” (Alessandro Uccelli su Cineforum). Altri hanno invece visto, dietro l’apparente freddezza delle immagini, uno sguardo caldo di partecipazione simpatetica e di umana solidarietà (Roberto Escobar, sul domenicale de Il Sole 24 Ore).

Lacci, di Daniele Lucchetti, Italia 2020 (**) – Fuori concorso (e film di apertura della Mostra) 

In uno dei più celebri incipit della letteratura si dice che tutte le famiglie felici si somigliano, mentre invece quelle infelici lo sono ciascuna a modo proprio. La famiglia protagonista del film, tratto da un romanzo breve di Domenico Starnone, con al centro la coppia formata da Aldo (Luigi Lo Cascio e Silvio Orlando) e Vanda (Alba Rohwacher e Laura Morante), è certamente tra quelle infelici, come vediamo ben rappresentato nell’epilogo, ambientato in un elegante appartamento romano, nei giorni nostri. Ciò che rimane della lunga convivenza sembra essere solo un rancore incattivito e velenoso, solo appena temperato da una traccia di tenerezza e dalle buone maniere proprie di una colta famiglia borghese. Anche i figli, ormai maturi, sembrano covare, sotto sotto, un segreto desiderio di vendetta nei confronti dei genitori, visti come i responsabili dei propri fallimenti esistenziali (come mostra un colpo di scena finale che, forse efficace nel romanzo, qui appare piuttosto malriuscito). Nella prima parte del film è raccontata la genesi di questa infelicità. Quarant’anni prima, in una Napoli post terremoto quasi irreale e oleografica per come è rappresentato il vicolo di centro storico in cui vivono i protagonisti. Quella di Aldo e Vanda, con i due figli ancora bambini, sembra una famiglia felice, come tante altre, né più, né meno. D’improvviso Aldo (conduttore radiofonico nel canale culturale della RAI, spesso a Roma per lavoro) racconta alla moglie di averla tradita con una sua collega, Lidia. Non pensa sia amore, ma non può (vigliaccamente) non dirglielo. Durante il film sentiamo qualcuno affermare che per stare assieme a lungo bisogna parlarsi il meno possibile. La trasgressione di questa regola innesca un lungo dramma famigliare, fatto di un traumatico e lungo abbandono e poi dalla decisione di tornare assieme, per provare se poteva ancora funzionare. I lunghi dialoghi con Vanda (tesi) e Linda (più pacati), ma anche gli sguardi muti dei figli (della figlia in particolare), sono una lunga vivisezione (al femminile) di Aldo: dietro la falsa sicurezza che mostra nei suoi concioni radiofonici sulla letteratura, emergono i tratti di un uomo incapace di decidere e di vivere con autenticità un amore. Che lascia siano gli altri a scegliere per lui. Che finisce per affidarsi alla forza di inerzia prodotta dai legami e dalle responsabilità che la famiglia ha nel tempo intrecciato e consolidato.

di Dario Zanuso e Aldo Zoppo