Si è aperta alle ore 18 di mercoledì 25 novembre la nuova edizione di Ce L’ho Corto Film Festival, la rassegna del Kinodromo dedicata al cortometraggio che trova quest’anno spazio online all’interno della piattaforma OpenDDB. Una prima giornata che ha visto come protagonisti i cortometraggi di tre sezioni, Internazionale, Ce l’ho corto e Ce l’ho Porno, ancora disponibili fino alle ore 18 e visibili in replica domenica 29 novembre, accompagnati da due incontri in diretta con i registi e le registe.
Inaugurando nella Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, le due sezioni Internazionale e Ce l’ho corto decidono di presentare tutti cortometraggi che vedono alla regia giovani artiste, molte al loro primo esordio dietro la macchina da presa. È il caso di Olga Torrico che presenta il suo Gas Station, la storia di una giovane ragazza, lavoratrice presso una stazione di rifornimento, ma appassionata di musica. L’incontro con il suo ex insegnate di flauto traverso la farà tornare sui suoi passi e l’ascolto della sua musica sul disco le farà rivivere la sua passione. Come un fuoco, brucia improvvisamente dentro di lei l’esigenza di ricongiungersi a questa parte di se stessa. «Con questo corto volevo raccontare il rapporto simbiotico tra l’essere umano e l’arte, di cui la musica rappresenta solo un esempio», ha raccontato la regista e attrice durante l’incontro in diretta su Facebook.
Prima volta alla regia anche per Francesca Tasini e il suo Lola. La storia di una donna transgender che desidera diventare madre e si trova implicata nel complicato mondo delle adozioni e dell’affidamento, fatto di burocrazie, di regole, di diritti difficili da far valere. Un cortometraggio estremamente delicato: la macchina da presa sembra quasi accarezzare teneramente la sua protagonista, di cui raccoglie il dolore nell’istante di una lacrima e la gioia in un abbraccio, in un sorriso condiviso con chi, finalmente, ha trovato una casa e una famiglia dove l’amore vince sul pregiudizio. Un cortometraggio che, come ha raccontato la regista durante l’incontro, si ispira ad un avvenimento reale accaduto in Italia non troppo tempo fa: la storia di un ragazzo omosessuale che ha adottato una bambina. Francesca Tasini ha deciso di cambiare il soggetto principale della storia, dando così voce al mondo transgender.
Ultimo cortometraggio della sezione Internazionale per questa prima giornata è Giusto il tempo per una sigaretta di Valentina Casadei: quindici minuti di vita quotidiana, estratti da una giornata qualsiasi e portati sullo schermo. Due fratelli, un padre assente, una madre alcolizzata, una vita frenetica costringe Christian ogni giorno a giostrarsi tra l’andare a lavoro, l’accompagnare il fratellino a scuola, il fare la spesa e il preparare da mangiare. Sullo sfondo di una generazione di adulti e genitori presenti nell’assenza, incapaci di prendersi cura di se stessi e dei propri figli, la storia di una generazione di figli che, immersi nel caos quotidiano, di tanto in tanto riescono a godersi un attimo di respiro. «Bisognava creare questa routine frenetica che non lascia spazio a momenti di spensieratezza, per accentuare ancora di più questa spensieratezza che è stata tolta ai fratelli», ha afferma la regista.
Passando alla sezione Ce l’ho corto si incontra la protagonista di Afkørsel, cortometraggio di Celia Scheij: una giovane donna, pronta a prende il volo, a conquistarsi la sua indipendenza trasferendosi ad Amsterdam. Un altro film che mette in rilievo la complessità dei legami familiari e l’inadeguatezza degli adulti: un padre tagliato fuori dall’inquadratura, di cui si sente solo la voce, insistente, incurante dei desideri della figlia, di cui non comprende le esigenze. Un’assenza che è presenza costante ed opprimente, motivo anche di sofferenza. Ma dietro la fragilità della giovane si cela anche una grande forza che la porta ad allontanarsi, ad uscire dall’abitacolo di quella automobile divenuta claustrofobica, per stendersi al suolo e tornare a respirare. «Per la nostra generazione e in questo quadro storico, applicare la fragilità e la forza in un nucleo famigliare permette anche di superare i traumi», ha afferma la regista.
Prima volta dietro la macchina da presa anche per Yasmin Gomes che con I don’t Love you Anymore dà vita a un condensato di angoscia prodotta dal vivere nella grande città di San Paolo, dove la regista ha vissuto per una decina d’anni. Un sentimento che emerge dalla costruzione e dal taglio delle inquadrature stesse, così ravvicinate alle cose e alle persone, cogliendone primissimi piani e dettagli che non lasciano il respiro. Un senso di angoscia e di claustrofobia riprodotto visivamente da linee geometriche riprodotte delle finestre dei palazzoni grigi, dalle trame delle pavimentazioni all’esterno e dalle architetture dei soffitti che restituiscono San Paolo come racchiusa dentro una grande grata, un’immensa prigione da cui è possibile scorgere il cielo solo frammentato dai fili della corrente. Alle immagini infine si accompagnano i suoni e i movimenti meccanici, che contribuiscono alla creazione di spazi irrespirabili.
Anche per Clémentine Chapron è la prima volta alla regia: il suo film Restless Instants rientra a tutti gli effetti nelle definizioni di cinema sperimentale, con un modo di raccontare per immagini che assomiglia ad un flusso di coscienza. Ed sono infatti proprio le dinamiche del ricordo e del desiderio quelle che il cortometraggio intende raccontare: l’inquadratura traballante dal gusto retrò del super8, il montaggio che procede per associazione di immagini, di dettagli e di suoni in contrappunto restituisce la complessità dell’inconscio, il progredire del pensiero per associazione di idee e di memorie sulle quale si costruisce il desiderio.
Infine, Animali di Elisabeth Wilke: la macchina da presa segue i passi di una ragazzina tra le strade di Roma. Il modo in cui i bambini fanno esperienza della vita sono mediati dai sogni e dalla fantasia, in grado di trasformare i rumori della città in barriti di elefanti, gli stessi che popolano di ombre il muro accanto al letto prima di dormire. La macchina da presa segue la sua protagonista, la riprende nel suo fare esperienza della città mettendo in gioco tutti i suoi sensi. Un respiro documentaristico aleggia sull’estetica e sulla narrazione del cortometraggio.