Glenn Gould, Andy Warhol e gli altri. Su Vite di nove ipocondriaci eccellenti di Brian Dillon

0
12
Richard Avedon, Andy Warhol, 1969

 

«Il termine ipocondria deriva dal greco ὑποχόνδρια, composto dal suffisso υπό (sotto) e χόνδρος (cartilagine del torace), a indicare un malessere, noto già in epoca antica, che si riteneva localizzato nella fascia addominale. Le cure di conseguenza erano quelle relative ai malori addominali. Solo più tardi si comprese che invece la causa di questo malessere era collegata ad aspetti psicologici dell’individuo»: la definizione proposta da Wikipedia pare appropriata a sintetizzare l’attitudine con cui Brian Dillon (docente di critical writing, editore, scrittore e giornalista inglese) ha composto questo volume, recentemente proposto al lettore italiano da il Saggiatore.

Una salutare attitudine letteralmente olistica, secondo la quale «le proprietà di un sistema non possono essere spiegate esclusivamente tramite le sue singole componenti poiché la sommatoria funzionale delle parti è sempre maggiore, o comunque differente, delle medesime prese singolarmente» intride la documentata restituzione delle preoccupate biografie delle nove (ma in realtà dieci) celebrità, da Darwin a Proust, da Glenn Gould a Andy Warhol, da Charlotte Brontë a Michael Jackson.

Biografie intese in senso etimologico, cioè scritture di vite (bios) e dunque di corpi, come suggerisce Dillon nella ricca introduzione, da cui peraltro affiorano le dense parole di Michel de Montaigne e del poeta John Donne, del quale è citato un libro dal titolo perfettamente sintetico di una precisa idea di quale funzione medicamentosa l’arte possa/debba avere: Devozioni per occasioni di emergenza, del 1624.

 

Glenn Gould

 

Questa pubblicazione può, in effetti, ritenersi medicamentosa, per tre precisi motivi.

Il primo. Mostrare le fragilità, le spesso ridicole ossessioni di personaggi illustri li rende più accessibili, ai nostri occhi comuni. Dunque, in un certo senso, ci consola della nostra non-eccezionalità. Nulla di nuovo, certo, basti pensare alle origini del rito del Carnevale, la cui funzione era quella di irridere, in un contesto e tempo dati, i potenti di turno: una delimitazione che di fatto non faceva che confermare un esistente status quo. Analogamente, al di là della legittima esigenza editoriale di trattare personaggi noti (chi acquisterebbe un volume che racconta le idiosincrasie di nove Signor Nessuno?), questa è una dinamica che funziona come palliativo: asseconda un nostro naturale voyeurismo, ma non pone in sé vere domande alla nostra esperienza.

Il secondo. Pare invece più efficacemente provocante la scelta, come già accennato, di integrare i diversi piani delle vite presentate (biologico, psico-emotivo, intellettuale, sociale) in un sistema ontologicamente complesso che le e ci regola, anche se per comodità spesso ce ne dimentichiamo. Un utile, mai superfluo, pro memoria.

Il terzo. Analogamente, secondo un approccio affine ai più radicali cultural studies, il volume si e ci interroga su come venga generato un significato -ogni significato- e su come esso sia legato a sistemi socio-culturali di potere e di oppressione. Fuori e dentro il nostro corpo, la nostra testa, la nostra esperienza nel mondo.

 

MICHELE PASCARELLA

 

Brian Dillon, Vite di nove ipocondriaci eccellenti, il Saggiatore, 2020, pp. 332, € 24