Cuscunà, il canto della risalita

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Marta Cuscunà

Il legame inevitabile con il teatro che nemmeno le difficoltà della pandemia possono spezzare: la giovane attrice e regista di Monfalcone racconta questi mesi difficili e i futuri progetti. Un mondo nuovo, forse migliore è ancora possibile.

Marta Cuscunà è una giovane regista e attrice di Monfalcone che impegna la sua produzione nell’abbattimento dei pregiudizi e degli stereotipi di genere. Per oltre quindici anni ha lavorato con costanza e passione, finché lo scorso 24 ottobre, Marta, come milioni di altri italiani, per la seconda volta in un anno, è stata costretta a sospendere il suo lavoro. Avendola conosciuta in un precedente progetto didattico, abbiamo scelto di fare una chiacchierata con lei, una specie di ricognizione su questo 2020 in cui siamo stati costretti a mettere in stand by molte cose, prima fra tutte la fruizione live di eventi culturali.

Nonostante fosse impegnata nelle ultime prove dello spettacolo |Earthbound| ovvero le storie delle Camille, prima della chiusura dei teatri, ha volentieri dedicato un’ora del suo tempo alla nostra curiosità.

Il DPCM dello scorso 24 ottobre disponeva la chiusura di cinema e teatri. Come hai vissuto questo nuovo stop?

«Ho riprovato lo smarrimento del primo lockdown: teatri e cinema sono considerate le attività più sacrificabili, esattamente come le scuole. Sono state le prime realtà ad essere chiuse. Pensavo che dopo la prima volta, ci sarebbe stato un approccio diverso, e che ormai, si fosse colto il fatto che anche noi siamo lavoratori come gli altri. Molte sale e arene avevano investito ingenti somme di denaro e molto impegno per rispettare le norme di sicurezza, mentre sono rimaste aperte realtà in cui i protocolli erano più blandi. È un interrogativo che resta nell’aria, e questo tralasciando il fatto che a livello economico per il settore si tratta di un disastro».

Questa situazione azzera completamente l’attività il mondo dello spettacolo?

«Mi ritengo molto fortunata. In questo momento sto lavorando con Emilia Romagna Teatro che ha deciso di produrre un nuovo spettacolo. Teoricamente dovremmo debuttare a Cesena il prossimo 28 gennaio. Siccome queste ultime restrizioni sono arrivate mentre stavamo già lavorando all’esibizione teatrale, abbiamo deciso di continuare a provare per altre tre settimane. Sono previste diverse repliche che probabilmente verranno cancellate definitivamente. Tutto è incerto: non sappiamo neanche se sarà possibile mettere in scena lo spettacolo. Non sappiamo neanche più per cosa stiamo lavorando».

Come si chiama questo progetto?

«|Earthbound| ovvero le storie delle Camille. Con il termine ‘Earthbound’ il filosofo francese, Bruno Latour, indica un popolo immaginario formato da esseri umani che riusciranno ad avere in futuro un atteggiamento diverso da quello che la nostra specie ha sempre avuto: noi, infatti, ci sentiamo separati dalla natura e quindi autorizzati a sfruttarla, per puro interesse. In ‘Earthbound’, gli uomini e la natura costituiscono un unico grande organismo e insieme contribuiscono al mantenimento della vita sul pianeta. Sarà uno spettacolo che si ispira alle storie di fantascienza scritte da Donna Haraway, nel suo ultimo saggio di ecofemminismo: l’autrice immagina piccole comunità umane che, insieme a tutte le altre specie viventi, migrano in zone distrutte dallo sfruttamento e dall’inquinamento con l’idea di risanarle. Gli abitanti di questo nuovo mondo, al fine di salvaguardare tutte le specie viventi, tentano di riparare i danni degli uomini. Le questioni di cui tratta lo spettacolo sono le stesse che stiamo affrontando noi adesso, perché dobbiamo capire come affrontare il futuro sapendo che abbiamo creato un problema. Donna Haraway afferma che è importante allenarci a immaginare futuri possibili in cui la nostra specie troverà delle soluzioni: raccontarsi delle storie può essere una pratica di cura».

La pandemia sembra cambiare le persone. Tu ti senti diversa? Tutto questo si rifletterà sul tuo modo di vedere il teatro e di produrlo?

«Tutto quello che è successo mi ha fatto fermare, tutto il lavoro che avevo fatto è scomparso nel giro di un attimo. Per la prima volta mi sono trovata in una situazione in cui niente dipendeva da me. Io e la mia compagnia teatrale avevamo pensato a possibili spettacoli da fare online, ma è chiaro che questo ci ha portato ad interrogarci ancora di più sul valore dello stare insieme. Il teatro è una comunità di persone che vivono insieme, nello stesso momento, una stessa esperienza che li porta a riflettere, emozionarsi, vedersi rispecchiati e ragionare sul tipo di associazione che vogliono essere. Si può fare tutto questo stando ognuno davanti ad uno schermo? Quanto i nostri corpi sono necessari per sentire la vicinanza l’uno dell’altro… a me questa cosa è mancata tantissimo. Non mi ricordo l’ultima volta che ho abbracciato, che ho toccato i miei cari. E questa roba è terrificante».

Fragilità o brutalità delle persone: durante quest’anno c’è stato un episodio che ti ha colpita di più al riguardo?

«Quando è scattato il lockdown noi eravamo a Lisbona. Stavamo lavorando ad un progetto con un gruppo di artisti portoghesi e dal momento in cui si è sparsa la voce che c’erano anche degli italiani, le persone negli studi hanno dichiarato di non sentirsi sicuri a condividere con noi gli stessi spazi. Per la prima volta nella mia vita mi sono sentita diversa, mi sono sentita un problema in quanto italiana. Tuttavia, al di là della dell’esperienza traumatica, è stato molto costruttivo, perché io, in quanto giovane, donna, bianca, occidentale, perfettamente abile, non ero mai stata discriminata prima. Questo mi ha fatto immaginare come possano sentirsi altre persone che invece lo sono quotidianamente per il colore della pelle, per l’orientamento sessuale, per come sono d’aspetto».

di Chiara Giunta e Ilaria Valmori, 5 E Liceo scientifico A. Oriani, Ravenna.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Marta nella sua performance “Il canto della caduta”, intenta ad utilizzare uno dei suoi pupazzi meccanici.