Io sono italiana, mio marito è di Singapore e nostra figlia è inglese. Di famiglie come la nostra a Londra ce ne sono tante. Nostra figlia ha compiuto un anno proprio a marzo 2020, quando il lockdown era già arrivato in Italia ma in Inghilterra era ancora solo una nube minacciosa.
A noi, come a tanti altri, il lockdown ha tolto il tappeto da sotto i piedi e ci ha costretti ad analizzare la nostra vita con la lente d’ingrandimento.
Tutte le cose belle per cui «vale la pena» vivere a Londra stavano sparendo pian piano, come ad esempio, andare a vedere un musical o al ristorante per un lungo brunch domenicale, girare per i mercatini delle pulci, passeggiare immersi nei giardini più belli d’Europa, bere un caffè con le amiche all’ultimo piano di un grattacielo o anche solo lavorare al computer nel bar sotto casa. All’inizio dell’estate, infatti, era rimasta solo «la pena» di vivere in un piccolo appartamento in affitto con una bambina di poco più di un anno che stava imparando a camminare ed era determinata a staccarci le prese da sotto la scrivania durante le video chiamate.
Ci siamo dovuti abituare in fretta al lavoro remoto e abbiamo elaborato dei turni che prevedessero che almeno un adulto responsabile sorvegliasse la prole. Per me, che ero appena rientrata dalla maternità e, per fortuna, ho un lavoro flessibile, voleva dire lavorare molto presto la mattina, molto tardi la sera e durante l’ora di pranzo, per lasciare le ore d’ufficio a mio marito.
Le restrizioni dovute alla pandemia ci hanno tolto un velo dagli occhi e ci siamo resi conto che le condizioni abitative nelle grandi città sono, per molti, parecchio scarse. Gli spazi sono piccoli, gli affitti proibitivi e la maggior parte degli appartamenti non ha un balcone o un giardino.
Tra giugno e luglio 2020 Rightmove, una delle agenzie immobiliari più famose dell’Inghilterra, ha registrato il 126% in più di ricerche di case in campagna.
In questo anno, ho conosciuto molte altre mamme che proprio per questa ragione hanno acquistato una casa nella prima campagna fuori Londra e altre che hanno subaffittato il loro appartamento per vivere con la famiglia vicino al mare.
Noi, invece, siamo tornati in Italia, a Faenza, la mia città natale. Abbiamo messo tutte le nostre cose in un magazzino e abbiamo preso il primo aereo senza voltarci indietro.
Ovviamente tutti questi spostamenti sono stati resi possibili grazie allo smartworking. Forse erano possibili anche prima, in teoria, ma il Covid ha accelerato il processo. Molte compagnie si erano già attrezzate per concedere ai dipendenti di lavorare da casa, uno o due giorni alla settimana, ma questo non era sufficiente per rivoluzionare la propria vita.
Negli ultimi mesi, invece, si è verificato un fenomeno interessante: una sorta di contro-esodo dalle città alla campagna e dalle metropoli alle province.
Il messo comunale che è venuto a controllare personalmente la nostra residenza, ci ha confermato che sempre più italiani stanno tornando a «casa» dalle grandi città: da Londra, da Parigi, da Montreal, e da molte altre parti del mondo.
E durante il nostro breve periodo in Romagna, abbiamo avuto modo di constatarlo di persona. Abbiamo conosciuto diverse famiglie giovani, come noi, che sono venute a farsi coccolare dai «nonni» italiani, in cerca di uno stile di vita più sano per i propri figli e, allo stesso tempo, per mettersi al riparo dalla seconda ondata, che puntualmente è arrivata a settembre.
Per alcuni però, tornare non è stata esattamente una scelta. Come per Luca, 32 anni, produttore discografico, a Londra da 9 anni, che si è ritrovato senza lavoro per via della crisi dell’industria dell’intrattenimento.
Altri invece, non hanno fiducia nel sistema sanitario del Paese ospitante e preferiscono affidarsi a quello italiano. Come Elisa, 34 anni, che insieme al fidanzato, ha deciso di tornare a Casalecchio per partorire e passare alcuni mesi della maternità vicina alla famiglia d’origine.
In un certo senso la pandemia ci ha messi di fronte ad una domanda fondamentale: che cosa è importante per te? Se dovessi rinunciare a tutto, quali sarebbero le cose di cui non puoi fare a meno?
Abbiamo imparato a conoscerci meglio proprio in base a quello che ci è mancato. Con gli affetti e la famiglia al primo posto. L’odore di casa e la cucina della nonna. Ci è mancato lo spazio per vivere, ma anche per muoverci, per camminare e per giocare. E così, le provincie sono tornate ad essere invitanti. Posti dove gli spazi abitativi sono più grandi, le distanze più corte e i ritmi di vita più lenti. Posti magici, dove, nel bene e nel male, i cambiamenti arrivano già pigri e svogliati.
Dopo tanti anni immersi in un’altra cultura però, non è facile adattarsi. Come ci conferma Andrea, 37 anni, tornato in Romagna dopo 15 anni in Inghilterra: «Devo ammettere che aver vissuto all’estero così tanto tempo ti abitua a modi di fare molto diversi dal nostro, e devo dire che certe cose mi infastidiscono. Ad esempio la politeness inglese, per quanto di facciata, rimane comunque apprezzabile nei rapporti fra le persone, cosa che qui in Italia manca, oppure l’apertura mentale nel rapporto con chi è diverso da noi (per religione, razza, cultura, ecc.) che a quanto vedo rimane molto limitata».
Per molti rimpatriati, probabilmente, resta una soluzione temporanea, finché le acque non si calmano, ma per altri chissà, potrebbe diventare permanente.
Magari la rivoluzione del lavoro digitale contribuirà ad iniettare nuova linfa vitale alle campagne e ai borghi abbandonati. Le piccole città verranno sferzate da una ventata di giovani professionisti, con le loro famiglie multicolori e multilingue.
Le metropoli continueranno ad esistere e ad essere un polo di attrazione, certo, ma grazie a questa nuova flessibilità lavorativa, abitarci sarà un’opzione e non una costrizione.