Diario di viaggio a Cuba in tempo Covid. Prima parte

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Santiago de Cuba, 9 Gennaio, Anno del Signore 2021

Questa volta, quest’anno il solito, chiamatelo come più vi piace: viaggio? periodo di permanenza? vacanza? nella Maggiore delle Antille aveva possibilità di essere qualcosa di diverso dalle ultime venticinque volte.
L’incertezza per il domani, che tutti noi in stragrande maggioranza abbiamo sperimentato in questo ultimo anno, che ci portava a farci domande del tipo: “Potrò vedere chi mi pare?”, “Potrò andare dove ho voglia?” fino ad arrivare: “Sarò libero ad uscire di casa?” e, colmo dei colmi, “Potrò svolgere la mia mansione al solito posto di lavoro (per chi ha la fortuna di averlo)?”. Senza menzionare il sempre possibile DPCM dell’ultimo minuto, diretta TV o fb del Presidente del Consiglio che impedirà per legge.
Bene, miei cari, tutte queste incertezze si moltiplicano N alla potenza quando si sta per intraprendere un viaggio intercontinentale in un paese definito del terzo mondo, con tutti gli annessi e connessi dovuti a treni e stazioni, aerei e aeroporti, orari da rispettare, compilazioni di svariate “autocertificazioni”, normative in essere nel paese di destinazione, imprevisti di qualsiasi genere che possono intervenire a rendere ancora più incerto e difficoltoso il tutto.
Ma questo e molto altro ancora è il sale della vita di un viaggiatore. L’incertezza di quello che si troverà dietro l’angolo, minuto dopo minuto. Una sorpresa che può essere positiva o negativa. Problemi mai affrontati che si possono presentare improvvisamente e sono da risolvere nel più breve tempo possibile.

Preparazione

Un senso di costrizione quasi claustrofobico mi attanaglia la bocca dello stomaco prima della decisione definitiva. “Invece di starmene chiuso in casa, approfitto di tutto ciò o no?”. Non ho paura solo per me. Lascio a casa i miei affetti. Ho paura che si preoccupino perchè sono lontano, che gli complichi l’esistenza più di quanto già non la sia, in questo momento di altre complicazioni portate da queste quattro sequenze di DNA maledette.
Nella mia testa si susseguono, fino ad accavallarsi, decisioni e dietrofront. Si sovrappongono anche diversi acquisti di biglietti e richieste di rimborso. Le compagnie aeree per fortuna si sono adeguate ai tempi e permettono cambi di data e cancellazioni gratuite del biglietto fino all’ultimo momento. Una cosa così non la vedevo dai viaggi primi anni ’90 in Asia.

Cancello e riacquisto il biglietto definitivo a 5 giorni dalla partenza. Mi sale una sensazione di eccitazione. Il male allo stomaco sparisce e prende il posto una vitalità vigorosa, la consapevolezza di essere in grado di farlo e che sono disposto e pronto a tutto. Mi sento forte, col cuore tenero. Succeda quello che succeda, se qualcosa dovesse andar storto avrò il sorriso sulle labbra. L’ho promesso. Non ho e non ho mai avuto paura di niente. Ho esperienza, sono al colmo della maturità, ho viaggiato il mondo, ho vissuto la vita, come posso aver anche solo un momento potuto dubitare?

Partenza

Il giorno della partenza è l’1° Gennaio. Bellissimo. Anno nuovo, vita nuova. Ieri sono andato a letto alle 10 e mezza 11, come sempre ultimamente, ma il 31 dicembre mai accaduto. Dormito bene. Mentre percorro il tragitto da casa alla stazione deserto uggioso, nebbia…ah c’è il “locdaun” (io parlo Italiano non inglese a casa mia!!! Giacche grazie al cielo vivo in Italia e non in Inghilterra o negli Stati Uniti. Che lo usino loro l’inglese o se preferiscono perchè non cambiano le loro parole impronunciabili coll’italiano … e lockdown lo scrivo e lo pronuncio come mi pare, non in inglese, già che scrivo in Italiano). Un ghigno mi torce il labbro: “locdaun!. Ho negli occhi e nelle orecchie i brindisi, le voci del pomeriggio prima, chiassose come sempre e sovrapposte le une alle altre: “fai bene!!”, gli “in bocca al lupo delle mie amiche e amici, posso proprio dirlo amiche e amici con A maiuscola.
Stazione: vuota, il vagone verso Bologna: vuoto, il Marconi: vuoto, o meglio è vuoto per essere un aeroporto …partenze prima del mio volo solo tre. Vuoto. Negozi chiusi, duty free o tax free (e ridaìèè ‘..azzo) aperti.

Compilo l’autocertificazione col motivo del viaggio, scrivo “ricongiungimento”; la prima delle alternative prestampate. Sinceramente non mi andava di scrivere vado in “vacanza” che comunque non appariva nelle alternative. Il poliziotto al posto di controllo – siede su uno sgabello senza neanche il banco o un tavolino davanti – con il mio passaporto e biglietto in mano mi domanda la destinazione e a sentirsi rispondere La Habana prima mi chiede -“Dove???” -“La Habana, Cuba” poi -“Sei Cubano?”. Ha il mio passaporto in mano… io rispondo -“No” -“E allora a chi ti ricongiungi?” -“eehhmm…ho una morosa là…”. Svogliatamente scuotendo la testa mi riconsegna il tutto facendo cenno di passare, io ringrazio e auguro buon anno. La risposta si perde nella sala, appena udibile.

Son di là, ai cancelli di partenza, anche se i cartelli indicatori parlano di GATE. Mah! Ho un’idea fissa è l’1° gennaio, mi potrò ben permettere un bicchiere anche se sono le 11 di mattina! Niente… il solo bar aperto non offre il servizio a meno di 9 euro il calice, una bottiglia di Moretti da 33 cl. attira la mia attenzione nel frigo, nonostante non sia una delle mie preferite, riesco a scorgere il prezzo, leggo: 5 euro. Visto che dovrò stare 3 ore a Madrid per la coincidenza, decido di conservare i 5 euro per quel momento. Mi mangio il panino che mi son portato dietro da casa e bevo l’acqua del lavandino del bagno. Sarà pur sempre il primo dell’anno anche a Madrid. Lì avrò modo di sorbire un’ottima birra media Mahou, spagnola, bella grande, la “pinta” per “tres con cinquenta” come dicono là, con tapas di pulpo a la gallega (Polipo alla Galiziana) Gambas de el estrcho (gamberi dello stretto di Gibilterra) e anchoas del cantabrico con manteqilla (acchiughe del Mar Cantabrico con burro). Adesso non bado a spese, quando si tratta di prelibatezze del genere e credetemi, ho vissuto in Spagna a lungo, niente a che invidiare a quelle di Tarifa o Sant’Ander. Tutto questo al terminal 4s di Madrid. Mi chiedo se noi Italiani sapremmo promuovere i nostri prodotti tipici, infinitamente superiori a quelli della amata Spagna, bene come loro.

Atterraggio- Cuba

La prima cosa che si nota pochi minuti dopo l’atterraggio, quando i portelloni dell’aereo vengono aperti, è l’odore particolare del luogo in cui sei. La Habana ha un sentore di umidità limitata e salmastra. Ma qualcosa non è come le altre volte, c’è qualcosa di nuovo un intruso artificiale, chimico. Un frequentatore di piscine lo riconoscerebbe subito come familiare. L’intruso è il cloro. Quando a Cuba è in corso un’emergenza sanitaria o la si vuole prevenire, la popolazione di questa sostanza ne fa gran uso. Così appaiono all’ingresso delle case, delle attività commerciali in genere, di qualsiasi luogo che abbia una funzione pubblica, tre bottiglie di tutte le forme, colori e dimensioni. Non importa cosa contenevano precedentemente. Il riuso di qualsiasi cosa a Cuba, oltre che un arte: “el arte de el invento”, è una necessità. Non si getta niente che possa avere un utilizzo anche lontano anni luce da quello per cui l’oggetto era stato pensato progettato, prodotto e utilizzato; se qualcuno se ne libera, viene senz’altro trovato e raccolto per la nuova vita. Alcune sono legate a fili, a volte quelli della luce o spaghi, altre no, quando vi è la presenza di un vero e proprio addetto all’utilizzo: il lavaggio delle mani. Una contiene la soluzione allo 0,1%; una acqua saponata a bassissima concentrazione; una piena, e sempre diligentemente mantenuta tale,  di acqua. Le tre si usano in ordine. A Cuba disposizioni simili le avevo viste apparire dopo l’uragano Sandy che aveva portato con se’ quella che i cubani chiamano malattia intestinale acuta, da noi “semplicemente” chiamata colera. Il fratello maggiore, solo in ordine di apparizione, del coronavirus SARS1, della influenza aviaria e della epidemia in Africa di Ebola, non si sa mai che facesse il salto dell’Atlantico anche lei. Parallelamente alle bottigliette, al suolo appare anche uno straccio, dovutamente imbevuto, su cui passare le suole dei calzari vari in uso alla popolazione.
Lavate le mani e sbrigate le formalità di frontiera, incontro le prime persone, tutti chiaramente con mascherina che con un termine tipicamente criollo viene chiamata “nasobuco”, diversamente dallo spagnolo, che viene chiamata semplicemente “mascarilla”. Da subito mi appare la chiara evidenza della presenza del virus a Cuba. Mi appare una schiera di almeno venti banchetti divisi dal famigerato plexiglass in cui sono presenti un medico e un infermiere, per quanto riesco a vedere tutti giovanissimi. Misurazione della temperatura corporea, e tampone molecolare. Mi accomodo in una piccola sedia da scuola elementare e una dottoressa bardata di tutto punto contro il possibile contagio comincia la pratica. Abituato a vedere questo in TV ero pronto a quest’intrusione fino al fondo del mio bel nasone. Ebbene una grattatina appena al principio della narice è tutto quel che ho sentito. Mi daranno poi l’esito della prova, solo se positiva, all’indirizzo che ho fornito all’ufficio di immigrazione. Recupero il mio bagaglio estremamente ridotto, trovo un tassista “illegale” che tutti i colleghi regolari mi avevano sconsigliato. Il tassista accetta la mia offerta senza fiatare, carica il bagaglio, mi vuole davanti accanto a lui perché “quiere conversar y conocer lo q pasa allà” e dopo 25 minuti mi scarica “sotto casa”. La musica delle varie case della “quadra” (quartiere) che vantano uno stereo, gareggiano a chi riproduce, noncurante dei vicini canzoni, di Reggaeton con il volume al massimo, al limite della distorsione del suono. E’ pur sempre il primo dell’anno, questo è normale. L’ultimo stereo si spegne alle cinque della mattina in concomitanza col mio risveglio.

Habana

Albeggia, assolvo il rito mattutino della doccia ed esco per una prima passeggiata. Sono una quindicina d’anni che non visito la Capitale però, certo, non mi è nuova, mi oriento subito, trovo il Malecon (uno dei lungomari più belli al mondo, a mio parere) lo seguo verso verso Galliano, ora Avenida Italia, tutto più o meno come lo ricordavo: alcuni edifici ristrutturati alla perfezione, altri in decadenza comunque abitati o adibiti agli usi più vari. Il centro storico si estende essenzialmente tra due quartieri di non così notevoli dimensioni: Habana vieja e Centro Habana. Qui il turista o viaggiatore che sia, trova tutto quello che è venuto a vedere. Ed è splendido. Habana vieja quasi tutta interamente ristrutturata bene ad uso e consumo dei turisti; Centro Habana quasi tutto completamente in decadenza ma che ancora porta le vestigia di una grande città. Una città di una ricchezza, classe ed eleganza uniche al mondo. Palazzi sontuosi, oserei dire magnificenti, fregi, stucchi, marmi, sculture, capitelli, inferiate, ringhiere di un’arte raffinata, anche nei minimi dettagli. Tutto sembra superfluo se non per indicare il censo e l’importanza di chi ivi abitava, commerciava o si ricreava.
Faccio un salto indietro, cosa comporta viaggiare nello specifico a questo ormai ultimo avamposto fieramente Socialista, per lo meno nelle dichiarazioni dei suoi leader e della sua costituzione immodificabile, ma pur ben ritoccata un paio d’anni fa? Come tutto in quest’isola non si capisce bene fino in fondo. Chi parla di quarantene di 2, 4, 5, 10 gg. Quarantene per turisti, per residenti, per nazionali ecc.. Il mio status (oh, un bel latinismo sopravvissuto) di “turista” dimostrato dal mio visto di ingresso prevederebbe, come si legge su svariati siti internet, un controllo epidemiologico diverso, alternativo alla quarantena che non prevederebbe nessuna restrizione o libertà di movimento a patto di non “frequentare a fondo la comunità nazionale”. Sostanzialmente mantenere le distanze sociali, le misure di igiene previste, indossare la mascherina. E così ho fatto. Mi accorgerò poi a Santiago che non tutte le autorità la pensano allo stesso modo…niente di più normale quà. Lo sapevo già! Ero pronto a questo. Io sono un solitario. Mi piace camminare, riposarmi in un angolo all’ombra per diventare parte del tutto, del mondo cui appartengo. Quando il sole è già alto mi accorgo della presenza di altri turisti: una coppia Giapponese, guarda te, è intenta a fotografare nei pressi della cattedrale; due giovani bionde anglosassoni, scandinave, schivano rapide gli insistenti richiami di svariati ragazzotti – di una composta varietà di colori della pelle – nei pressi dell’hotel Englaterra. Per un attimo finisco anch’io al centro delle loro attenzioi, a dimostrare che si accontenterebbero di qualunque persona con passaporto straniero. I ragazzotti offrono compagnia e servizi vari per avere a sera la loro razione giornaliera di ron, birra e sigarette o, se fosse la loro giornata fortunata, un paio di scarpe, calzoni o un biglietto di taglio discreto. Oggi non hanno avuto fortuna nè con me nè con le bionde. Tempi duri per questi jineteros desiderosi di qualsivoglia cosa venga dalle mani di un danaroso e privilegiato turista.

La noiosa stanchezza adrenalinica senza riposo vero delle ultime 30 ore, che accompagnano le mie trasferte intercontinentali negli ultimi anni lasciano il posto a un “ruggente” appetito, che la misera colazione dell’alba a base di un piccolo panino rotondo con un velo di formaggio e un succo di frutta, a una concentrazione probabilmente simile a quella delle bottigliette disinfettanti presenti ovunque, non ha certo potuto rimandare più di tanto. Ciondolo pigramente di nuovo verso il Malecon. Non crediate, io cammino alla velocità della luce normalmente, tanto da sembrare tarantolato, ma quando il tempo ti è amico e nemico allo stesso tempo, ossia ne hai talmente tanto a disposizione, che devi trovare la maniera di occuparlo, mi piace diluire gli impegni. Mai svolgerli tutti insieme, uno alla volta e lentamente, quello che può essere fatto domani o più tardi, mai farlo subito o contemporaneamente a un altro.

Scovo un ristorante nelle vicinanze del mio alloggio, una stanza in una casa privata che la famiglia affitta e da cui ne trae notevole guadagni rispetto a quasi tutte le categorie di lavoratori cubani, consigliatomi dai locatori. Apre alle 12 e le 12 sono. Entro preceduto dal portiere, sempre presente all’ingresso di tutti i locali di un certo livello, che mi indica il tavolo dove sistemarmi, mi accompagna la sedia mentre mi accomodo. Io in Crocs (vecchie e risuolate a Cuba, almeno 2 volte) bermuda e maglietta di cotone a cui la sera prima della partenza, con l’aiuto delle forbici, ho strappato le maniche e il collo perchè sia più comoda e fresca. Lui in livrea. Siamo due veri signori: io per lui per passaporto, ma sicuramente non per l’abito, lui per l’abito, non sicuramente per la mansione; comunque “signore” per me,  e meritevole di rispetto per il suo lavoro. Tutti i lavori sono rispettosi. Me ne sono dovuto convincere dato gli umili che sempre ho svolto nella mia vita, a partire 12/13 anni (stagionali, brevi, ma umili). Pieno rispetto.

Il locale è vuoto, il menù vastissimo e a quanto pare la titolare ha discendenti cinesi, d’altronde sono al limitare, appena fuori del quartiere cinese, con tanto di porte tipicamente orientali e dragoni agli accessi, presente da quasi 100 anni a La Habana. Il tempo di scegliere il come far cucinare il filetto di pesce e sceglier e il contorno, che il flusso di clienti inarrestabile comincia a riempire la sala e a dirigersi verso altre sale più riservate presenti nel locale. File di camerieri si affrettano numerosissimi tra i vari tavoli. La cucina è a vista.  Una vetrata permette di vedere diversi cuochi impegnati ai fornelli. Tutti camerieri, cuochi rigorosamente con mascherina. I clienti, tutti, rigorosamente senza. Mangio avidamente dato l’appetito. Il pasto è discreto e abbondante. Termino con un rummetto Habana Club 3 anos, il mio preferito quando non disponibile l’anejo blanco. Il Ron scuro, l’invecchiato, mi risulta indigesto. Il conto è accessibilissimo, ma comunque un 30-40% più caro di quello che avrei pagato nella parte orientale dell’isola, la mia preferita.  Per chi non sa come muoversi a Cuba questo paese può essere carissimo se confrontato con gli altri paesi del centro e Sud America, ma anche in assoluto, sopratutto nel rapporto qualità-servizio ricevuto e prezzo.

Ho speso 300 pesos e ho bevuto acqua. Non è poco. Ma al cambio attuale, rigorosamente in nero, il povero paese strangolato da decenni di embargo, quattro anni di Trump e, adesso, dalla mancanza di turismo straniero, è alla disperata ricerca di valuta forte e il cambio è schizzato alle stelle. Ma per chi ha euro in tasca è una pacchia. Una immagine che mi colpisce, inaspettata, varcata la soglia d’uscita del ristorante, è la ressa di famiglie e coppie che stazionano nei pressi dell’ingresso. Una moltitudine di gente ben vestita che evidentemente aspetta il proprio turno per accederne all’interno, ed è passata solo una quarantina di minuti dal mio arrivo! Chi è amante della pennichella, come me, può ben capire che, a questo punto, dopo praticamente 48 ore dal risveglio, nulla frulla nella mente che le sirene del letto, nella stanza della casa, non lontana, con condizionatore a split programmato sui 26° celsius, mezza sigaretta rollata rigorosamente con tabacco American Spirit e filtro smoking king size 8 mm e lenzuolino tirato fin sotto il mento. Il sonno giunge rapido e profondo, senza sogni, come mi capita spesso, al contrario della notte , ristoratore. Alle 5 verso sera ormai, farà buio intorno alle 6, rieccomi a gironzolare nei pressi del Parque Central che delimita Havana vecchia da centro Havana, del Capitolio, la sede dell’assemblea legislativa cubana (il parlamento) e il Teatro Naciolal Alicia Alonso, ballerina strafamosa a Cuba sin dai tempi della “dittatura” di Batista ed evidentemente divenuta Castrista. Da pochissimo è passata a miglior vita.  Il teatro questa volto lo raggiungo tramite Avenida Neptuno, una strada abbastanza larga, un viale anche se di alberi neanche l’ombra, che si differenzia per questo, dalle calles, le vie ben più strette e meno “nobili”. Neptuno è un susseguirsi di palazzi ex signorili, che lascia a bocca aperta per tanta ricchezza architettonica e artistica che si eleva alla potenza nei palazzi che fanno angolo con le vie, che l’attraversano. Le vie laterali sono lasciate alla decadenza e all’incuria più totale. Ogni spazio abbandonato lascia presagire l’accaduto, il derrumbe, il crollo. Sempre alla ricerca di come impegnare il tempo in maniera utile e distinta dal mio solito tran-tran italiano mi avvicino al programma di gennaio del teatro e scopro con grande gaudio essere presente un appuntamento per il giorno successivo, domenica, nel pomeriggio a partire dalle 5: niente popò di meno che “Il Lago dei Cigni”, il balletto. Qualsiasi cosa, in ogni città di Cuba, che rappresentino e suonino a un certo livello, è un mio impegno fisso e il Gran Teatro Monumental de La Habana Alonso è una novità assoluta per me. Mai messo piede, oltre l’ingresso. Il programma del giorno successivo mi ripagherà di tutte le fatiche del viaggio. Mattina sveglia, come al solito, all’alba, ricerca della Piquera ovvero da dove partono gli Almendrones, automobili familiari americane anni ’50 trasformate, ibridate, in taxi collettivi per 8 o 10 persone, con destinazione Guanabo, la spiaggia più “in” della capitale, poi pomeriggio al top con il Lago dei Cigni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al momento sono seduto a gustarmi un Ron Collins ben shakerato come aperitivo al bancone di un semplice e spoglio, ormai quasi introvabile, locale a gestione completamente statale, con 2.000 chiacchiere col barista sui soliti temi attuali. Un piatto di espaguettis (il termine non presente nel dizionario Spagnolo lascia ben intendere che di spaghetti come li conosciamo rimane solo il lontano ricordo) nemmeno esageratamente troppo scotti, ma solo scottissimi, annunciano la fine del mio primo giorno. O quasi. Perchè una passeggiata fino al cuore del centro storico, stasera sabato, nonostante il sonno la voglio fare.

L’orologio segna le 22 e 40 quando spengo la luce dell’abat-jour sul comodino. Per il mio fuso orario ancora italiano sono quasi le 5 del mattino! E’ ora di dormire.

Guanabo

Sono tra i primi a immergermi nelle acque cristalline e piatte dello Stretto della Florida la domenica mattina, per questo la spiaggia è già animata da famiglie, comitive di ragazzi e ragazze, coppie, centri ricreativi e di lavoro, di tutte le età. Tentenno a immergermi completamente. L’acqua è fresca al primo impatto, sul ventre e sui fianchi. Una coppia di giovani immersi fino al collo abbracciati, poco più in là, mi scruta curiosa alla vista dell’unico turista presente? Timorosa dell’untore? Divertita dal fatto che noi dei paesi freddi temiamo l’acqua temperata dei tropici? Chissà… Alla fine lei sbotta in un sorriso che parla: “E’ fredda vero?”. Fredda o non fredda, fredda, mi immergo con un brivido di adrenalina che scossa tutto il mio essere e che vale più di 2 caffè. Sono dove ho aspettato di essere per otto lunghi laboriosi mesi. Nel mare che da azzurro verde chiarissimo degrada tutte le tonalità fino al turchese blu del largo. Ho i brividi, non per il freddo. Mi amo e amo tutto il mondo. Questo è ciò che mi richiama ai tropici di inverno. Oltre alle flip/flop (le pianelle daii!!) e i 2 stracci che indosso, nel mio bagaglio a mano sono comunque presenti gli indumenti più eleganti del mio armadio per le serate o i luoghi che lo esigono, pena l’allontanamento da parte del portiere. Che bello il mare qua. Guardo le ragazze in bikini sognando oltre quei due centimetri di tessuto finissimo che lascia intendere cose proibite (una volta!!!), stò godendo come un pazzo! Un pazzo. E sogno! Sogno dietro i miei occhiali scuri oltre quelle tele, ben comodamente disteso su uno sdraio con il mio lettore digitale di libri in mano, ma incapace di concentrarmi dovutamente sul primo romanzo dell’anno, per il via vai di tele. Spettacolo della confusione dei geni. Mai sentito meglio nell’ultimo anno. Ho già deciso, domani torno. Un po’ di metropoli, un po’ di mare un po’ di bella vita prima di muovermi verso Est.

Teatro Alonso, L’Habana
Il luogo è sicuramente uno tra più eleganti e preziosi che abbia visto! Tutto in marmo bianco e rosa, colonne, capitelli, scale, corrimano, specchi, tutto riluccica a nuovo. Un lampadario di cristallo enorme illumina la grande sala coi suoi 4 ordini di palchi. Come doveva essere cuba negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso, all’apice della sua ricchezza dovuta alla produzione di zucchero, all’estrema fertilità del suo suolo e posizionamento strategico per il commercio transatlantico nei Caraibi. L’ingresso ottenuto con una mancia, ben opportunamente occultata e fornita con un piccolo gioco di mani. Il balletto dura oltre le tre ore. Mi sento privilegiato. Unico straniero, almeno così mi è dato vedere. Protagonisti sono il primo ballerino e la prima ballerina di tutta cuba, almeno 25 figuranti. A Cuba di ballo se ne intendono come nessuno al mondo. Provate a vedere una cubana che balla la Samba e sarete d’accordo con me. Spettacolo di livello Mondiale in assoluto. Meritevole della Scala o del Metro Goldwyn Mayer. Ebbene Cuba è anche questo. Eccellenza.
Il giorno successivo già saprete dove rivedermi. No? Sono le 8, è lunedì e la spiaggia di Guanabo è deserta. Unico inconveniente l’annunciato e incombente furente freddo, la perturbazione, che nell’Occidente di Cuba si susseguono una dopo l’altra, avendo la possibilità di trasformare questa porzione dell’Isola un incubo di vento freddo e pioggia per i turisti che, sfortunati e con pochi giorni a disposizione sognavano un caldo estivo e si ritrovano invece in una sorta di clima olandese con 16 gradi di giorno e 10 di notte. La perturbazione mi concede comunque 3 ore del più bel sole del mattino, e quando decide di coprirlo me ne vado salutando la costa nord di Cuba. Almeno per il momento.

L’Habana dei cubani

 

 

 

 

 

 

 

 

Mi rifocillo nella capitale, breve ma immancabile siesta ed è il momento giusto per addentrarmi e perdermi (non con l’orientamento) nei vicoli e nelle av enide dell’Avana dei cubani. Quello che mi si presenta è desolante.  A parte la decadenza degli edifici e delle strade con sversamenti di acque chiare e schure coi loro effluvi pestilenziali, la quantità di gente, moltitudine di popolazione in lunghe file disordinate solo apparentemente. In realtà ognuno sa bene chi segue e chi lo precede. Attendono per decina d’ore il turno per acqistare il pane, nelle vicinanze c’è un forno. Poco avanti sono presenti le forze dell’ordine e anche l’esercito, la moltitudine è aumentata, garanzia che nessuno si lamenti pubblicamente o sfidi l’ordine della fila. Sento dire una signora che spera che la salsa di pomodoro non finisca prima che le tocchi il suo turno. Mi si accappona la pelle. Le file sono nei pressi di ogni luogo commerciale. E’ indifferente cosa offrano. Addirittura fuori delle carissime, per i locali, caffetterie private che sono provviste evidentemente di sigarette, pane, succhi naturali o yogurt “artigianali” a prezzi altissimi. Chi può, per alcune cose, evita le dieci ore di coda. Mi accorgo solo adesso che la situazione a Cuba è tesa. Peggiora il tutto questa maledetta mascherina che soffoca ancor di più l’esistenza.
Tutto questo stride con la passeggiata nel cuore della zona turistica che ho fatto due giorni prima. Ora quì chiasso e folla. Sabato sera il contrario. Ciò dovuto non solo alla mancanza di quattrini spesi da tutti per il capodanno, vero proprio dogma per i cubani, non per la riforma salariale e monetaria che è entrata in vigore il primo dell’anno (di cui vi parlerò in seguito) che ha complicato ancora più la situazione economica del paese, ma per la mancanza de turismo. Uno dei principali motori economici del paese, insieme alle rimesse degli espatriati e alla fornitura di servizi medici all’estero. Chi lo ha visitato non mi può credere: dall’intero Parque Central, attraverso Obispo Plaza de Armas, Plaza de la Catedral, Empedrato (dove sorge la Boteguita del Medio) ‘O Reilly, altra via commerciale turistica nota, avrò contato 20 cubani. Tutto è desolatamente chiuso, sprangato, nessuno in giro. Ho continuato a passeggiare solo perchè ho visto qualche coppia di poliziotti, alcuni di loro col cane munito di museruola al guinzaglio. Ma nelle due piazze nessuno. Vedo una sola coppia di guardiani fuori da un palazzo statale che seduti sul gradino dell’ingresso e basta. Da brivido. Mi son chiesto se non stessi cercando guai ad inoltrarmi in luoghi tanto deserti. Solo a un certo punto una musica lontana, man mano più vicina, mi guida in un angolo di vicolo tra il porto vecchio e la plaza d’Armas. Scovo il locale da cui esce la familiare musica latina dal nome esotico di “Taberna de los Bucaneros” aperta. Aperta non vuol dire frequentata. I quattro tavolini fuori vuoti. All’interno due tedeschi, l’idioma non mente intenti a divorare una pizza, una coppia di cubani tubano mano nella mano.

 

Un fighettino cubano, molto ben vestito e curato nei dettagli, di una certa classe e fisicità seduto al bancone, ha al suo fianco la sua donna, probabilmente quella della serata. Lo dico per il suo modo di ignorarla concentrandosi piuttosto sul direttore del locale. Lei è super elegante, sensuale, provocante. Sorridendo entro nel locale accolto dalla cameriera e dico: “Finalmente qualcosa di aperto!” Mi accomodo col suo permesso al bancone pure io. La cameriera si trasforma in barista e mi serve un doble di tres anos. L’equivalente di quasi 6 dollari. Una volta con gli stessi soldi ci compravi una bottiglia da 1 litro. Non importa è l’inizio dell’anno e della mia vacanza. Il fighetto è avanti mi pare, la sua compagna è una bomba, ma non mi posso soffermare più di tanto. Corpo generoso, siluette perfetta, messa in risalto da un vestito da sera leggerissimo, lungo, con spacco vertiginoso fin quasi all’inguine, bretelline che lasciano scoperte le spalle. Bocca carnosa, capace. I capelli lunghissimi lisci e corvini, non lasciano dubbi. Lei è una latina. Con il suo ancheggiare divino, non solo per il tacco 10 che porta, mi passa a fianco, ignorandomi volutamente, per raggiungere un tavolino di fronte a me. Mi dedico alla barista, è meglio. Ai cubani fagli quel che vuoi ma non toccargli la “heva”, la donna, anche se ogni regola ha le sue eccezioni. Non mi pare questo il caso. Il fighetto con tono super mellifluo invita il direttore del locale a versargli ancora “medicina” nel suo bicchiere. Lo ripete tre o quattro volte “echa mediciiinaaa”. Che tipo! Ottenuta la sua medicina mi passa a lato e raggiunge la latina. Non mi occuperò più dei due. Super carina anche lei, la barista. Una spagnola Andalusa direi in tutto e per tutto. E’ vestita con la divisa da lavoro (vi potreste stupire delle divise da lavoro di quasi tutti i luoghi commerciali, musei, uffici, militari, scuole: minigonne, mini mini, calze a rete, camicette a maniche corte semitrasparenti, scarpe con un po’ di tacco). In 20 minuti sappiamo tutto l’uno dell’altra e viceversa. Si aggiunge alla conversazione il direttore. Al doble aggiungo una lattina di birra importata dall’ Olanda di pessima qualità che finisco in due secondi. Rincuorato dai caldi effluvi dell’alcool, dalla familiarità della conversazione – i cubani ti fanno sentire a tuo agio come se li conoscessi da sempre – mi dirigo verso casa a passo di trotto senza curarmi della solitudine che accompagna il percorso o dei possibili pericoli. In tasca mi rimangono poche monete. Ma non ci penso. Cammino in questo  sabato sera, in centro a L’Habana, la città che non dorme mai, in un deserto e un silenzio di tomba. Spettrale.

Fine prima parte.

 

 

2 COMMENTS

  1. Bellissima descrizione dei luoghi conoscendo l’ha ama è proprio così.complimenti

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