Ci vorrebbe un blackout. Conversazione con Elisabetta Lauro

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ph Luigi De Frenza

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Il tuo nuovo spettacolo Regenland – Elogio del buio ha debuttato online, il 27 marzo 2021, in apertura della programmazione di danza contemporanea curata da Sosta Palmizi denominata Nutrire di bellezza lo sguardo, un titolo programmatico che contiene tre parole centrali per ogni artista: nutrimento, bellezza, sguardo. Puoi introdurre il tuo nuovo assolo ponendolo in relazione a questi tre termini?

Penso che introdurre una creazione in relazione a qualcos’altro prima ancora che a sé stessa possa essere fuorviante. Nel caso specifico di Regenland, riesco a intuire le ragioni per le quali i tre termini appaiano facilmente ricollegabili alla sua estetica ma sono in realtà estranei alla ricerca e caricherebbero il lavoro di una forma e di un senso che non gli appartengono, rischiando di tradirne la natura. In Regenland il mio desiderio è di allontanarmi dal mondo definito dove le cose sono facilmente leggibili e, procedendo per sottrazione, cerco invece di avvicinarmi a ciò che vive nella penombra e che non si manifesta così facilmente. Questo significa che ogni cosa, anche quella apparentemente più chiara, potrebbe essere ma non è detto che sia. E quando cedo al bisogno di fissarla in un concetto per riceverne del supporto essa finisce per sfuggirmi, cosicché mi tocca ricominciare. Lo dico perché mi è successo. Quello che provo a fare invece è stare nel corpo e nel luogo, affidandomi al percorso che ho messo così tanto a costruire, senza cercare troppe spiegazioni. Sono più che altro domande ad accompagnarmi nel cammino, domande a cui spesso e volentieri non provo neanche a dare una risposta. Per esempio, in questo momento, mentre scrivo, continuo a chiedermi cosa resterebbe mai di me in caso tutto questo sparisse. Mi chiedo cioè se, una volta assolto tutto questo lavoro di esplicitazione riguardo a ciò che penso, credo e sento, io sia poi davvero in grado di riconoscermi o se non debba invece essere pronta ad accettare anche una me che è altro da me, che non combacia minimamente con l’idea che ho costruito. Regenland è questo tentativo di avvicinamento a me stessa, un invito che mi sono fatta ad accogliermi e a tenermi per quello che sento. Siccome vorrei comunque provare a rispondere alla tua domanda, tento un testacoda e introduco i tre termini che hai proposto in relazione a Regenland; il nutrimento viene dalla privazione, la bellezza è quella del bruco e lo sguardo che cerco è quello morbido che unisce le cose invece di separarle.

 

 

“Secondo degli studi della Nasa l’inquinamento di luce artificiale sulla terra cresce del due percento ogni anno, il nostro pianeta è sempre più luminoso e rischiamo che la luce spenga la notte” e Viviamo in un mondo costantemente illuminato, i nostri sono volti senza ombre e giorno dopo giorno, ora dopo ora, sfiliamo sulla scia di led e display sfuggendo alla tanto temuta oscurità: la citazione in esergo e le prime righe di presentazione, nella scheda del tuo spettacolo, lasciano immaginare una creazione a tema, con un chiaro messaggio che l’opera vuole veicolare. È così? Se sì: secondo quali principi hai tradotto in scrittura coreografica tale tensione didattica, o comunque testimoniale?

In realtà no, il lavoro non si è sviluppato sulla base di un concetto e spero che più che veicolare un messaggio generi un invito. Ma procedo cronologicamente e comincio col dire che tutto ciò che ho scritto su Regenland è arrivato molto dopo l’inizio della ricerca, quando il feto aveva già preso forma e cominciava a essere riconoscibile. Invece la primissima intuizione, quella che ha preceduto ogni cosa, anche il movimento, si è palesata di colpo seduta al tavolo di un bar. Mi sono guardata intorno e dal nulla ho pensato: ci vorrebbe un blackout. Il pensiero mi ha turbato, ma non ho voluto indagarne più di tanto le ragioni, perché sentivo che non era il suo momento, tuttavia intuivo che l’irritazione interiore era generata dall’elemento luce, anche se non ne conoscevo ancora modalità, contesto o accezione. Ho lasciato che si posasse, che mettesse radici da solo, cosicché per tanto tempo mi sono dedicata ad altro. Ogni tanto gli riservavo una riflessione sporadica e nel frattempo immagazzinavo qualsiasi tipo di informazione che sentissi in qualche maniera correlata all’elemento chiave, anche in modi piuttosto illogici. Ho cominciato a lavorare davvero su Regenland nell’inverno del 2018, muovendomi a tentoni in questa apparente dicotomia che sono la luce e il buio, e rendendomi conto di quanto in realtà avvertissi il bisogno di allontanarmi dall’una per rifugiarmi nell’altro, senza comprenderne il motivo. Una domanda mi ha spianato il cammino: mi è stato chiesto se non avessi paura del buio vivendo in campagna. Non ci avevo davvero mai pensato fino a quel momento, perché per me il buio è uno stato naturale. Tuttavia quella domanda mi ha portato all’attenzione una situazione abbastanza evidente nella quale viviamo già da tempo; un’assenza quasi totale di buio e un eccesso irragionevole di luce artificiale. È qui che ho iniziato a razionalizzare il processo e a tradurre in parole parte di quel che il corpo aveva già intuito. Ho proseguito sul doppio binario, il corpo nutriva la mente e la mente nutriva il corpo, ho ricercato l’argomento, l’ho ampliato su più fronti, ho spaziato dall’ambiente al collettivo, all’individuale, e sono rimasta stupefatta di quanto urgente fosse in realtà la questione, e la citazione in esergo ne è la conferma. L’intero procedimento è servito ad avvicinarmi alle domande che mi interessava davvero indagare: cosa ci spinge a rifuggire il buio e, facendolo, quanto di noi stessi stiamo perdendo? A questo punto credo sia necessario aggiungere che individuare un filo logico in una creazione che si muove per intuizione non è un’impresa semplice, e che vi sono diversi elementi i quali, nonostante siano parte integrante del percorso, non verranno mai a galla ma resteranno nel sottobosco, continuando a nutrire il lavoro dall’interno. Questo sottobosco, percepibile a chi crea ma totalmente invisibile agli altri, è tanto prezioso se non addirittura più prezioso degli elementi chiave.

 

ph Elisa Nocentini

 

Nel tuo lavoro si intrecciano modi e linguaggi dell’arte coreutica e di quella più specificamente teatrale, un debordare la disciplina di partenza che sembra connotare molte esperienze dell’alveo del contemporaneo. Nel tuo caso specifico da dove nasce, questa pulsione?

Non amo scindere la danza dal teatro perché, anche se passano attraverso due canali differenti, sono entrambi manifestazioni dell’essere e, in quanto tali, si mescolano e si completano. Io ho scelto di approfondire il canale della danza perché ne ho una profonda necessità. Ci sono esperienze che riesco a vivere pienamente solo attraverso il corpo, e l’energia che la danza è in grado di generare mi rimette in pace con me stessa e con il mondo. Ma non ho mai escluso il teatro o la parola, perché sono comunque parte di me e all’occorrenza, quando è necessario, scelgono di riaffiorare. Come ci sono cose che riesco a toccare solo attraverso il corpo – esperienze, desideri e dolori che la parola non può comunicare – così ci sono in me cose che sono rapportabili esclusivamente alla parola, tracce che è stata la parola a generare e che solo la parola è in grado di rievocare. In Regenland ci sono momenti in cui la parola è necessaria tanto quanto il movimento: diventa chiave di accesso a un livello ulteriore e, senza di essa, un tale passaggio non sarebbe possibile. Ricorrere alla parola non è un’azione semplice, la parola ha bisogno di essere partorita ma quando esce infrange un tabù e mi lascia procedere nel percorso.

All’inizio di questa domanda hai fatto riferimento ad alcuni modi e linguaggi di scrittura del movimento che si intreccerebbero nel mio lavoro, sarei curiosa di sapere quali siano. A volte chi guarda vede cose di cui noi che ci offriamo allo sguardo probabilmente non siamo neanche consapevoli, perché sono oltre le nostre intenzioni. Io genero movimento attraverso l’improvvisazione, improvviso molto e per lungo tempo osservo quello che improvviso, senza far nulla. Voglio captare ciò che il corpo vuole dire, resto aperta, mi invito a non giudicare, a non razionalizzare e, soprattutto, a non negare, perché il rischio a volte è che, per risultare innovativi, si proceda per negazione. Quando avverto di aver colto qualcosa, allora scelgo una direzione, continuo a lavorare su di essa, creando e approfondendo, e cucio progressivamente il percorso che si sviluppa a partire dall’impulso generatore, permettendo a quest’ultimo di trasformarsi in altro. Ci sono altre volte che invece compongo su un’immagine prescelta, come è accaduto per la prima parte di Regenland, completamente ispirata ai movimenti fotografici di una modella molto famosa, che ho voluto studiare e imitare, e che ho molto apprezzato per la sua arte. Sono state le sue movenze ad aver generato quelle sequenze iniziali, attraverso le quali riesco a provocare una scossa interiore che mi permette di passare oltre. In entrambi i casi ho comunque lavorato su un processo molto personale d’indagine e scrittura del movimento e mi sembra importante specificarlo.

 

 

Hai al tuo attivo una formazione e molte collaborazioni dal carattere marcatamente internazionale. Puoi esplicitare alcune esperienze del tuo percorso che hanno in maniera specifica influenzato questa creazione?

Tutte e nessuna. Nessuna perché, come ho dichiarato nella precedente risposta, provo a lasciare che l’esterno non influenzi il percorso di ricerca, sempre nei limiti del possibile ovviamente, e tutte perché comunque esse vivono in me, permeano il mio pensiero, il mio corpo e anche i miei modi di sentire. Io sono l’incarnazione delle mie esperienze, umane, artistiche, nazionali e internazionali e, come tanto altro a questo mondo, non sono scindibile. Ho capito che ostinarmi a voler ancora distinguere e specificare ogni cosa affinché sia chiara, o spiegabile o comprensibile, dire è così o non è così, non mi aiuta a sentirmi più sicura, non dona un valore aggiunto a questo tempo passato al mondo, agli anni passati a costruire la mia vita e la mia carriera. Sento che alla fine tutto è un grande mistero e che per me va bene anche così. Tornando quindi alla tua domanda, no, non saprei esplicitare nessuna specifica esperienza, ma, sì, sono tutte lì, le esperienze artistiche, quelle vissute in prima persona e anche quelle da spettatrice: fanno tutte parte della mia corteccia e occorre attraversarle e superarle se voglio giungere alla linfa vitale.

Nelle tue note biografiche sei definita artista associata dell’Associazione Sosta Palmizi. A favore di chi non conosce bene le dinamiche del sistema-danza contemporanea del nostro Paese: come è avvenuta e in quali termini (organizzativi, amministrativi, comunicativi e soprattutto artistici) si realizza, questa vostra associazione?

Per chi non conoscesse le dinamiche del settore artistico nel nostro paese credo che occorra innanzitutto chiarire la posizione dell’artista in questo contesto. Noi artisti in Italia creiamo ma non produciamo e, poiché non siamo riconosciuti come esseri produttivi, non possiamo accedere ai finanziamenti stanziati per l’arte, non possiamo partecipare ai bandi pubblici né possiamo essere sulla scena senza avere alle spalle un ente riconosciuto giuridicamente. Questo è quanto ho dovuto imparare ben presto quando ho rimesso piede in Italia. È una situazione molto limitante ed è per questo che tanti artisti, pur di riuscire a costruire qualcosa, decidono di costituire delle associazioni. L’Italia è stracolma di piccole associazioni, che a volte non sono altro che l’habitat di un singolo artista che vuole lavorare. Naturalmente, decidere di mettere su un’associazione e lavorare con soldi pubblici significa dedicare una gran parte del tempo e delle energie alle questioni amministrative e burocratiche, specialmente quando non puoi permetterti di assumere figure professionali cui poter delegare determinate mansioni, ed è quindi inevitabile che si finisca per sacrificare il lavoro artigianale. C’è chi è pronto a fare questo sacrificio e chi invece non lo è.

Detto questo, il mio incontro con l’associazione Sosta Palmizi, di cui Giorgio Rossi e Raffaella Giordano sono i direttori artistici, è stato fortunatamente prima di tutto umano e artistico. Ero arrivata in Italia con il mio primo spettacolo a serata intera Hay un no sé qué no sé donde e, per una serie di coincidenze e passaparola, sono stata invitata dalla Sosta Palmizi a presentare il lavoro all’interno della loro rassegna di danza Invito di Sosta. Avevo già incrociato Giorgio Rossi in un altro contesto, Raffaella Giordano invece la conoscevo solo di nome, ma quella è stata l’occasione per incontrarci e ho avvertito subito una corrispondenza con il loro modo di avvicinarsi alle cose e alle persone, con la cura e l’attenzione che ci mettevano. È stato un bell’incontro. Io all’epoca ero agli inizi della mia vita artistica come libera professionista e facevo molto su e giù dalla Germania all’Italia cercando di capire cosa volessi. È stato un momento di grande confusione e smarrimento che ha generato la necessità di una seconda creazione. Mi sono immersa in (zero) e, dopo aver affrontato una prima fase in solitaria e aver tirato fuori il cuore del lavoro, ho contattato Giorgio e Raffaella perché ne facessero conoscenza; avevo bisogno di aiuto per poter completare il percorso e sono grata di averlo ricevuto senza problemi. Ho immaginato fosse perché riuscivano a riconoscere in (zero) qualcosa che apparteneva anche a loro. Lì è cominciata la mia collaborazione con l’associazione che può contare non solo sullo spessore artistico della direzione e degli altri artisti associati, ma anche su un ufficio di persone molto belle con cui sono contenta di aver stretto una relazione umana. Con tutti loro sono riuscita a terminare la produzione di (zero) e anche a farlo girare per qualche tempo, cosa non scontata in un momento in cui le produzioni hanno vita breve, perché si produce tanto e si condivide poco. Adesso sono un’artista associata della Sosta Palmizi ma ciò non intacca la mia indipendenza artistica e questo è sicuramente l’aspetto più importante. Essere sostenuti nel proprio lavoro significa innanzitutto trovare un’accoglienza e un rispetto necessari a che le cose crescano senza essere indirizzate; nel nostro campo tocchiamo una materia estremamente fragile e ci vuole davvero nulla perché si deformi. Io come artista associata riesco ancora a creare ciò che mi chiama da dentro, a non seguire composizioni a tema, a prendermi anche tempi di gestazione piuttosto lunghi, ad apparire e scomparire secondo le mie necessità; è chiaro che compio delle scelte, le mie, e ci sono tanti sacrifici che devo fare su altri fronti, non essendo, come detto, riconosciuta come essere produttivo. Questa mancanza però è di un intero sistema costruito male a cui l’associazione non può supplire, avendo nel suo bacino diversi artisti associati che necessitano di eguale supporto. Ciò che l’associazione riesce a offrirmi è la possibilità di generare la spinta finale per poter fare venire al mondo le mie creazioni. Questa spinta è stata particolarmente importante nel caso specifico di Regenland, sia per la complessità di questo lavoro che per la situazione estremamente complicata che stiamo attraversando. Dopo due anni di grandi sacrifici e investimenti personali, procedendo a singhiozzi, sono finalmente riuscita a completare l’intera produzione e, senza il sostegno artistico, economico, logistico e amministrativo dell’associazione che mi ha messo nelle condizioni di realizzare la mia visione, non sarei mai riuscita a giungere allo streaming del 27 marzo. E mi sarei persa davvero tanto, ma di questo evidentemente parlerò un’altra volta.

 

ph Luigi De Frenza

 

Infine: quale verità ritieni possibile -o almeno auspicabile- per un corpo scenico che si offre allo sguardo di un gruppo di guardanti?

Senza pensarci troppo mi verrebbe subito da rispondere che l’unica verità possibile sia quella del corpo, ma sono in dubbio nel preciso momento in cui lo dico, perché il corpo appartiene a un essere pensante e senziente, e il pensare e il sentire possono facilmente essere alterati dallo sguardo dei guardanti. Ma poi mi chiedo se è così certo che l’essere alterati dal contatto con l’esterno ci renda meno veri o se non possa, invece includerci in una verità più grande che a me, da sola, sfugge. E penso che forse, per continuare, sia necessario innanzitutto capire dove sia il punto di osservazione, se è all’interno o all’esterno del corpo scenico, e allora ecco che subito torno sui miei passi perché mi sembra di ricordare che una delle caratteristiche della verità sia proprio il fatto di esser unica e assoluta. A questo punto, mi dico, se voglio uscire dal labirinto devo necessariamente sapere se il corpo scenico in questione tenda o meno alla verità e ne concludo che, prima d’innescare qualsiasi processo di argomentazione, sarebbe meglio interpellarlo.

Quindi, per provare a rispondere a questa domanda, ci sono due possibili approcci che potrei tentare: uno è quello del ragionamento teorico, che mi porta a dispiegare l’argomento in più direzioni e su più livelli; l’altro si basa invece sull’esperienza e quindi io divento il soggetto, il corpo scenico e, per rispondere, mi affido al mio vissuto. Preferisco sempre questa seconda forma, perché mi permette, anche solo illusoriamente, di sapere di cosa io stia parlando. Se devo basarmi dunque sulle mie esperienze, sceniche o meno, sono poche le volte in cui io abbia creduto di aver percepito una verità e di solito coincidevano sempre con momenti in cui, per qualche strano corto circuito, la testa si scollegava dal corpo e ne perdeva il controllo. E questo poteva avvenire davanti a uno sguardo esterno o in totale solitudine, il che mi porta a dedurre che non è lo sguardo esterno a determinare se sia possibile o meno una verità. La mia impressione è dunque che, qualunque sia la situazione, se la mente è troppo ingombrante la verità sfugge e che quindi la verità probabilmente risieda invece lì dove non c’è consapevolezza. Il che naturalmente mi renderebbe l’impresa davvero ardua, dato che ho dedicato e continuo a dedicare grande parte della mia vita proprio a un lavoro di consapevolezza, che sia essa in relazione a me stessa, agli altri, alle cose, allo spazio o al tempo. Ma l’esito di una tale riflessione non mi abbatte, perché penso di non aver mai nemmeno voluto tendere alla verità. La considero un concetto alto per me e credo che presumere di poterla possedere abbia sempre portato a divisioni e rotture. Preferisco invece avvicinarmi all’onestà perché essa può dimorare anche lì dove c’è incongruenza, dubbio, incoerenza e contraddizione; il fatto di essere sempre in un continuo dibattito interiore non ci preclude l’onestà. Quindi per riassumere l’intera riflessione e rispondere infine alla tua domanda, credo che sia possibile che una qualche verità abbia luogo, quando un corpo scenico si offre allo sguardo dei guardanti, ma non potrei dirti quale precisamente, perché questo è al di fuori della mia consapevolezza.

 

MICHELE PASCARELLA

 

info: https://www.sostapalmizi.it/produzioni_/regenland-elogio-del-buio/