59 ARTISTI REINTERPRETANO L’INVENTARIO VAROLI

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Massimiliano Fabbri

Una vasta raccolta di oggetti e sculture provenienti dalla casa-studio di Luigi Varoli, maestro cotignolese del primo Novecento, (oltre trecento pezzi, tra cartapeste, sculture, disegni, libri, fotografie, reperti) dal 4 giugno al 12 settembre  dialogherà con opere e interventi inediti di 59 artisti contemporanei nella mostra “Inventario Varoli –  della copia e dell’ombra”, un progetto di Massimiliano Fabbri.

Fabbri è un pittore e un disegnatore, ma è anche critico d’arte e promotore culturale.  Da anni cura le attività del Museo Civico Luigi Varoli e ha deciso di aprire l’Inventario Varoli a nuove interpretazioni e allestimenti da parte di giovani artisti contemporanei.

“Questa mostra nasce come appendice a Selvatico a cui ho lavorato per molti anni per il Museo Varoli di Cotignola. – spiega Massimiliano Fabbri. –  Selvatico ha molto spesso previsto degli innesti e degli intrecci tra l’arte contemporanea e le collezioni museali. Succedeva quindi che talvolta artisti potessero esporre proprio all’interno dei percorsi espositivi, già ricchi di memorie e presenze. Questa decisione di trasformare il museo in una sorta di studio collettivo è nata occasionalmente. Prima di tutto l’Inventario Varoli è nato da una necessità perché è composto dagli oggetti che prima erano collocati dentro la casa-studio di Luigi Varoli e che dovevano essere spostati per lavori di ampliamento e ristrutturazione della casa-studio dell’artista. La scelta è stata quella di non mettere in stand-by in deposito questi oggetti ma di farli diventare un allestimento museale temporaneo. Io l’ho definita spesso una “mostra-deposito” perché al pubblico veniva offerta la possibilità di interagire molto da vicino. È un’opportunità che solitamente è destinata solo a chi opera nei musei o a chi restaura opere d’arte.  L’incontro ravvicinato ha permesso di vedere le cose in maniera differente. Tutto poi ad un certo punto si è anche incrociato inevitabilmente con la pandemia, il lockdown, la chiusura dei musei. Con la prima riapertura di fine maggio, abbiamo organizzato delle visite guidate per bambini, in questo modo potevano orientarsi dentro questa foresta di presenze, dove cose fatte da Varoli si confondono con gessi, riproduzioni di sculture famose, oppure chincaglierie. Varoli era un collezionista quasi bulimico, raccoglitore davvero di un sacco di oggetti. I bambini disegnando in qualche modo si orientavano e suggerivano anche un possibile sguardo e geografia nuovi. È scattata così l’idea che la stessa cosa potesse essere fatta con gli artisti. Quindi abbiamo cominciato a lavorare con piccoli gruppi un po’ perché consideriamo il museo come un luogo mobile di produzione e di scambio di idee, in più c’era appunto questa chiusura anche violenta dei luoghi della cultura e quindi era la risposta del museo per cercare di continuare a mantenere vive le relazioni. In questo caso ci sono stati piccolissimi gruppi di quattro o cinque artisti che in una forma davvero di micro-residenza, perché durava due giorni, si ritrovavano confrontandosi tra loro e confrontandosi con il patrimonio del museo Varoli, utilizzando principalmente i linguaggi individuati del disegno e della pittura, due linguaggi antichi e che in parte rappresentavano la traduzione di quello che era in mostra, costituito prevalentemente di sculture e oggetti. L’aspetto più tecnico di questi due giorni di lavoro consisteva nel fatto che gli artisti dovessero allestire subito la loro mostra, che poi sarebbe stata modificata e spostata nei mesi successivi. Questo è avvenuto da luglio fino a ottobre”.

Giulio Saverio Rossi, ph. Daniele Casadio

Qual era lo spirito collezionistico del maestro Varoli e perché ci può parlare ancora oggi?

“Varoli è stato un artista, pur se locale, molto importante, perlomeno per il panorama romagnolo perché non si limitava al suo ruolo di artista, pittore, scultore, musicista, ma è sempre stato presente in lui un aspetto educativo. É stato un maestro per molti bambini, per molti allievi, molti dei pittori della Bassa Romagna ad esempio si sono formati da lui. Ci sono alcuni incroci e attraversamenti anche abbastanza straordinari come quelli fra l’archivio Varoli in questo inventario e due libri di Fortunato Depero. La sua casa-studio è davvero una sorta di luogo magico e camera delle meraviglie, pur se in ritardo. Cotignola è stata rasa al suolo dai bombardamenti alleati durante la Seconda Guerra Mondiale, l’83% degli edifici non esiste più. Spesso alcuni reperti, perché comunque era un luogo, seppur piccolo, con la sua storia medievale e rinascimentale, ad esempio gli Sforza erano originari di Cotignola, furono salvati e portati a casa da Varoli stesso che riempiva la sua dimora e il giardino del suo studio cercando di costruire un luogo che avesse a che fare con la bellezza ma anche con la bellezza quotidiana e che probabilmente per un cotignolese rappresentava un luogo di mistero e magia. Varoli mescolava qualsiasi tipo di oggetto, dalle cose davvero molto importanti, come dicevo prima Depero, al giocattolo senza valore. Ma è proprio questa dimensione di intreccio e di commistione di due mondi, dell’alto e del basso, l’aspetto più interessante dello spirito collezionistico di Varoli”.

Sabrina Casadei, ph. Daniele Casadio

Gli artisti hanno lavorato in due modalità diverse, una di confronto diretto con la collezione mentre un’altra a distanza, da dicembre a gennaio, con la chiusura imposta dai nuovi Dpcm. Queste due modalità si rifletteranno anche nelle soluzioni di allestimento adottate a Palazzo Sforza e all’Ex Ospedale Testi?

“Sì, è esattamente così. Abbiamo separato i due episodi in due allestimenti. A Palazzo Sforza appunto la mostra degli artisti che hanno lavorato dentro al Museo e che non è stata toccata rispetto all’ultimo allestimento fatto dagli artisti che è avvenuto a fine ottobre. Poi la scelta di reagire a questa ennesima chiusura è stata quella di fotografare tutta la collezione e tutti gli allestimenti, affidando il lavoro a tre fotografi, Daniele Casadio, Michele Buda e Marco Zanella, di mettere online questa galleria, come hanno fatto del resto molti musei, soprattutto l’anno scorso, e di invitare altri autori. In questo caso la scelta del secondo gruppo di artisti era più numerosa, però naturalmente non c’era la bellezza di lavorare sul posto, ciascuno lavorava nel suo studio e quindi si è innescato un processo inverso, è stato il museo ad uscire e ad entrare negli studi degli artisti. Rispetto ai due giorni molto intensi dei gruppi precedenti questa seconda ondata ha permesso agli artisti di avere più tempo a disposizione e di avere maggiormente sotto controllo il lavoro. Abbiamo scelto di fare allestire gli artisti in un altro spazio che è quello dell’Ospedale Testi. Quindi ci sarà una mostra differente, complementare ma in separata sede, in quanto l’allestimento è più rarefatto, lascia più spazio alle opere, mentre nella prima parte la dimensione del reticolo, della crescita è più visibile. Gli spazi sono importanti perché sono quelli dell’Ex Ospedale Testi, l’ospedale storico di Cotignola. Abbiamo avuto il comodato, quindi questa mostra ha avuto il pregio di restituire alla comunità, per quanto in maniera temporanea, uno spazio che prima era chiuso”.

Per quanto riguarda la seconda modalità a distanza, il museo, come accennavi poc’anzi, ha optato per una campagna e una galleria fotografica realizzata appositamente durante il mese di novembre e resa disponibile online. Cosa ne pensi della digitalizzazione dell’arte? In questo caso specifico si è rivelata una soluzione altrettanto ricca di possibilità espressive?

“Da un lato credo che sia giusto e doveroso, lockdown e pandemia a parte, rendere il più accessibili possibile le collezioni, togliere i diritti di riproduzione, quindi più un museo è online più uno riesce a fare ricerche, trovare materiale, con la certezza che questo non sostituirà mai la visita ad un museo, lo spostarsi, soprattutto poi ancora di più, per esempio, per quanto riguarda i piccoli musei di provincia che si intrecciano con il paesaggio, che è una delle nostre caratteristiche. Anche lo stesso Grand Tour era qualche cosa che aveva a che fare con la geografia, con il viaggio, lo spostarsi. Questo resta insostituibile. Per quanto riguarda questo caso specifico, la tua domanda è giustissima perché di certo si perde il rapporto con tutti gli errori che ci sono nel corso dell’opera. Ci siamo posti questo problema e abbiamo capito che non potevamo fare una riproduzione oggettiva di quello che esisteva, quindi abbiamo affidato il compito a tre sguardi ben caratterizzati, tre fotografi molto differenti e quello che credo si sia innescato di interessante è che gli artisti, che ancora hanno lavorato con il disegno e la pittura, si sono tutti confrontati con un secondo sguardo, cioè hanno sì guardato al patrimonio ma hanno anche filtrato o gestito una cosa che era già stata guardata da un altro artista. Per rendere tutto però non troppo freddo, nella seconda parte del progetto abbiamo invitato solamente artisti che avevano già esposto a Selvatico e conoscevano già la realtà di Cotignola e del Museo, quindi la galleria fotografica che abbiamo messo online poteva essere un riferimento ma non era vincolante. Alcuni artisti hanno lavorato su memorie, su loro fotografie scattate quando sono venuti, alcuni mi hanno chiesto di fare delle fotografie più banali con il cellulare. Per me era molto importante che avessero già un loro bagaglio di conoscenze e anche affettivo, quindi non ci sono stati purtroppo nomi nuovi nella seconda parte, ma artisti che avevano già attraversato e conosciuto lo spazio”.

Quanto è importante, in un’epoca di sempre maggiore smaterializzazione, preservare le stratificazioni di senso legate agli oggetti?

“È indispensabile perché rappresenta anche una trasformazione. Cioè gli oggetti in sé da un certo punto di vista sono solo chincaglie che non valgono niente, detto questo però sono dei contenitori di storie, trattengono la memoria. La memoria è qualcosa di vivo, che va continuamente riadattata, riaggiustata, ripensata, è una ferita aperta. Ha bisogno di noi, ha bisogno dei nostri sguardi, come anche la parola identità. Il museo ha a che fare con l’identità di un luogo. Per quanto la parola sia spesso usata per alzare muri, è un concetto che non possiamo abbandonare, anzi è qualcosa che va rivisto e ripensato. I musei non sono solo contenitori di oggetti e strutture fatte una volta per tutte, ma continuano a modificarsi, hanno una storia che in qualche modo si intreccia con le storie di potere, credo sia giusto renderli inclusivi. In questo caso la valorizzazione di un piccolo museo di provincia, con un artista che probabilmente fuori dall’Emilia Romagna è poco conosciuto, è importantissima.  Durante la pandemia noi operatori culturali ci siamo sentiti completamente inutili. Purtroppo la narrazione è stata un po’ questa. Abbiamo avuto la sensazione di appartenere ad un mondo di cui si poteva fare tranquillamente a meno… anche se tutti siamo stati a galla grazie ai libri, alle serie televisive, ai concerti in streaming. Mi sono reso conto che questo progetto, pur essendo una cosa molto semplice, è stato un momento importante per gli artisti per ritrovarsi e per non sentirsi completamente isolati in quest’anno”.

 

Apertura mostra: venerdì 4 giugno, 15.00-20.00 / sabato 5 e domenica 6 giugno, 10.00-13.00 e 15.00-19.00. Orari dal 7 giugno al 12 settembre: giovedì e venerdì 15.30-18.30 / sabato e domenica 10.00-12.00 e 15.30-18.30. Dal lunedì al venerdì dalle 8.30 alle 12.30 solo su prenotazione. Info: www.museovaroli.it/