La riapertura per la Fondazione MAST di Bologna segna un nuovo capitolo nell’impegno per la sensibilizzazione verso tematiche etiche e ambientali. Dopo il successo di Anthropocene, è in questi giorni in corso Displaced, la prima grande antologica dedicata in Italia a Richard Mosse fotografo documentarista di origini irlandesi impegnato in una ricerca dedicata all‘analisi dei fenomeni di migrazione, conflitto e cambiamento climatico.
La mostra, a cura di Urs Stahel, presenta al pubblico 77 fotografie di grande formato e video che ripercorrono gli ultimi dieci anni della carriera dell’artista, dai primi lavori degli anni 2000 dedicati ai paesaggi delle zone di guerra e di confine fino ai lavori più recenti, la serie Tristes Tropiques (2020), realizzati nell’Amazzonia brasiliana.
“Richard Mosse crede fermamente nella potenza intrinseca dell’immagine, ma di regola rinuncia a scattare le classiche immagini iconiche legate a un evento. Preferisce piuttosto rendere conto delle circostanze, del contesto, mettere ciò che precede e ciò che segue al centro della sua riflessione. Le sue fotografie non mostrano il conflitto, la battaglia, l’attraversamento del confine, in altri termini il momento culminante, ma il mondo che segue la nascita e la catastrofe. L’artista è estremamente determinato a rilanciare la fotografia documentaria, facendola uscire dal vicolo cieco in cui è stata rinchiusa. Vuole sovvertire le convenzionali narrazioni mediatiche attraverso nuove tecnologie, spesso di derivazione militare, proprio per scardinare i criteri rappresentativi della fotografia di guerra”, spiega il curatore Urs Stahel.
La serie Breach del 2009 segna un momento spartiacque nella carriera di Mosse con un rinnovato interesse per la figura umana, assente delle opere precedenti. Protagonista è l’esercito americano e il suo ingresso nel palazzi imperiali di Saddam Hussein in Iraq.
Sempre agli esordi della sua carriera appartengono le due grandi videoinstallazioni ambientali presenti in mostra: Infra, allestista nella MAST.Gallery, e The Enclave – al Livello 0 – realizzate tra il 2010 e il 2015. Le due opere raccontano un’indagine sul Congo, regione africana tra le più martoriate dall’estrazione delle materie prime e dalle guerre per il controllo.
Richard Mosse utilizza nelle sue fotografie la Kodak Aerochrome, una pellicola sensibile ai raggi infrarossi – oggi non più prodotta – messa a punto per localizzare i soggetti mimetizzati durante le ricognizioni militari. Grazie ad essa, il fotografo riesce a rendere visibile la clorofilla, alterando il pigmento verde della vegetazione in un surreale paesaggio giocato sui toni del rosa e del rosso. In questo tempo, quasi sospeso e magico, si alternano le tracce e gli orrori della guerra offrendo nuove possibilità estetiche al genere del reportage: scene crude con ribelli, civili e militari o quelle che rappresentano le capanne in cui la popolazione, sempre in fuga, trova momentaneo riparo da un perenne conflitto combattuto con machete e fucili diventano quasi pop e accattivanti per la visione.
La complessa videoinstallazione The Enclave si compone di sei parti dedicate al viaggio di Mosse nella regione del Nord Kivu, nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo dove è estratto il coltan, minerale da cui si ricavano i materiali per i componenti dei nostri smartphone. Alle immagini si accostano i suoni, le registrazioni di rumori duri che raccontano gli addestramenti militari e la violenza degli scontri tra esercito e ribelli, modulati in melodie che acuiscono la sensazione di surrealtà già registrata visivamente in Infra, suggerendo l’idea di una calma e fissità del paesaggio inesistente.
Mosse, accompagnato dall’operatore Trevor Tweeten e dal compositore Ben Frost, ha realizzato The Enclave per il Padiglione Irlandese alla 55° edizione della Biennale di Venezia nel 2013, ispirandosi al celebre romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad.
Tra il 2014 e il 2018, l’attenzione di Mosse si sposta sul fenomeno della migrazione di massa: l’artista visita i campi profughi Skaramagas in Grecia, Tel Sarhoun e Arsal a nord della valle della Beqa’ in Libano, i campi di Nizip I e Nizip II nella provincia di Gaziantep in Turchia, il campo profughi nell’area dell’ex aeroporto di Tempelhof a Berlino e molti altri.
Con Heat Maps – letteralmente ‘mappe termiche’- Mosse utilizza la tecnologia dell’infrarosso per restituirci l’immagine di un paesaggio altrimenti non visibile: il calore dei corpi ci mostra la vita che è rinchiusa in quei luoghi altrimenti non diversamente documentabili permettendo di catturare immagini anche a 30 km di distanza. Anche in questo caso, il fotografo irlandese utilizza una tecnica mutuata dalla tecnologia militare che ritroviamo anche nell’altra grande installazione audiovisiva presente in mostra, dal titolo Incoming (2017). L’opera – realizzata sempre grazie al supporto di Tweeten e Frost – si divide in tre scenari: una portaerei sul Mediterraneo; lo sbarco dei migranti e la loro accoglienza nei campi profughi europei.
Più recenti, infine, le serie Ultra e Tristes Tropiques in cui Mosse esplora la foresta pluviale sudamericana per denunciarne l fenomeno della deforestazione di massa e dove per la prima volta concentra l’obiettivo sul macro e sul micro, e l’interesse si sposta verso tematiche ambientali. Grazie alla fluorescenza UV, in Ultra Mosse scandaglia il sottobosco e racconta la biodiversità e la complessità della vita in questi scenari. Tristes Tropiques si ispira alla “counter mapping” di Denis Woods, artista e cartografo, una forma di cartografia di resistenza che grazie a fotografie ortografiche multispettrali mostra i danni ambientali difficilmente visibili dall’occhio umano.
Fino al 19 settembre. Bologna, Fondazione MAST, via Speranza 42. Info & Orari: www.mast.org