Preparare un fuoco. Conversazione con Claudio Angelini | Città di Ebla

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Claudio Angelini

 

Vorrei partire dalla tua più recente creazione scenica, liberamente ispirata a Il dottor Semmelweis di L.F. Céline. In quale occasione hai incontrato questo testo e per quali ragioni hai pensato di metterlo in scena lavorando con Marco Foschi?

Mi ero imbattuto in questa tesi di laurea di Céline almeno cinque anni fa. Conosco Marco Foschi da vent’anni, grazie a un periodo in cui feci da assistente alla regia per Antonio Latella. Condivido con Marco un’amicizia particolare. Direi una fratellanza. Questo rapporto è stato sempre molto intenso, anche in anni in cui abbiamo fatto cose che ci hanno tenuto più distanti. Per un lavoro insieme bisognava attendere l’occasione giusta. Non appena ho finito di leggerlo, Semmelweis per me doveva essere portato in scena da Marco. Semmelweis era Marco. Per me. Gliel’ho proposto e lui ne è rimasto entusiasta, ma sono dovuti passare altri tre anni. La vita cambia registro in maniera repentina e inimmaginabile. A ottobre ci siamo messi a lavorare, praticamente senza pianificare nulla e grazie a un’occasione che Teatro Akropolis ci ha messo a disposizione per debuttare. I motivi non sono interamente raccontabili, perché toccano aspetti particolari della nostra esperienza di vita recente. Voglio però dire che suo padre Massimo Foschi, carissimo amico, ha avuto un ruolo determinante in questo abbrivio.

Quali sorprese e cambi di direzione rispetto al progetto iniziale ha portato, la sua realizzazione?

La prima sorpresa è stata la velocità nel procedere. Non avrei mai immaginato un grado di sintonia così alto. E la cosa non era scontata, tanto più che Marco è a mio parere un autore, non solo uno straordinario interprete. Questa caratteristica per me è fondamentale nelle persone con cui lavoro. È stata una rapida cavalcata che deve ancora arrivare alla sua forma definitiva, a Genova nel novembre di quest’anno. Il mio lavoro consiste nel creare le condizioni atte a sorprendermi. Non do molto credito alle mie – cosiddette – idee. È una cosa che mi annoia. E in genere non funziona. A me piace creare le condizioni affinché il gruppo di lavoro, Marco in primis in questo caso, possa scoprire cose che non sapevamo o non avevamo inizialmente intuito. Certo ciò avviene all’interno di un perimetro concettuale che viene testato continuamente. È molto bello quando, pur cambiando le traiettorie, si sente che le premesse di base sono integre e a volte rafforzate. In questo lavoro per me è successo spesso. Grande importanza hanno avuto i suoni originali di Cristiano De Fabritiis, il lavoro di montaggio sonoro di Davide Fabbri e in particolare la traduzione di Massimiliano Morini. Non solo ha colto le nostre esigenze lasciandoci adattare la forma linguistica al corpo scenico, ma generosamente ha prodotto una materia scritta ulteriore, grazie agli approfondimenti fatti su Céline, e questo ha informato in maniera decisiva la direzione narrativa e interpretativa di Marco.

 

Città di Ebla, Anteprima Semmelweis – ph Gianluca Naphtalina Camporesi

 

In quest’opera la quasi totalità della “locandina” (autore di riferimento, regista, interprete, traduttore, creatore dei suoni, ecc) è maschile, ma l’oggetto del racconto, almeno a un primo livello di lettura, è ciò che accade al corpo delle donne in specifiche condizioni. Come avete attraversato artisticamente questo paradosso?

L’autore è maschile e il racconto biografico è attinente a un momento storico in cui certi ruoli erano solo maschili. Il contesto della vicenda è dunque maschio-centrico in termini di potere e disastri, sebbene interamente femminile rispetto alla tragedia che si consuma. Mi sembra che purtroppo questo fatto rimanga terribilmente attuale e tanta sia ancora la strada da fare verso la reale parità di genere. Non solo in ambito di scelta di ruoli ma più in generale rispetto al contesto culturale, da cui poi tutto discende. Questo aspetto che permea la storia di Semmelweis, ora che me lo chiedi, mi pare ancora più attuale e centrale della questione legata al contagio. Certo mi fa effetto pensare a questo lavoro, fortemente voluto in tempi distanti dalla pandemia in corso. Per il resto la mia squadra è la stessa da anni, penso ad esempio a Luca Giovagnoli che oltre ad occuparsi con me della dimensione scenica e delle luci ha un indispensabile compito di supervisione generale grazie alla sua sensibilità e alle sue conoscenze a largo spettro (macchinistica, luci, audio). Impossibile prescindere dalla sua presenza. Sebbene a un primo sguardo potrebbe sembrare un gruppo ricco di ruoli maschili, direi che il telaio organizzativo, empatico e di sguardo sono invece tutti al femminile. Città di Ebla è un collettivo artistico in cui le fondamenta del nostro operare sono da sempre tenute in piedi da donne. Forse è per questo che nel tempo la nostra attività si è rafforzata nonostante le molte avversità.

In tue precedenti creazioni hai collaborato con interpreti spesso diversi. Nella tua prassi la scelta delle persone precede o segue lo specifico progetto artistico? Perché?

Non c’è un perché. È proprio come dici. Interpreti molto diversi, ma anche dispositivi scenici diversi. E nemmeno un passo costante di produzione. Ho prodotto anche tre spettacoli in un anno, e nello stesso tempo sono stato in silenzio per altri tre o quattro. Non credo in un metodo, mi sembra una cosa lenta. Inseguo delle tensioni o semplicemente vado a sbattere su delle cose, e da lì comincio una ricerca che però si presenta piena di incognite. E spesso sono molto indolente. Retrospettivamente posso dire che l’unico elemento che io sento di ritrovare è una certa ossessione per il corpo. Declinata in molti modi, dei quali alcuni tuttora ignoti anche a me stesso.

Uno degli elementi caratterizzanti il tuo lavoro è l’estrema varietà dei formati, dato peculiare in un panorama che, anche nell’alveo del contemporaneo e della cosiddetta “sperimentazione”, fa della standardizzazione del linguaggio il principale strumento di riconoscibilità, dunque di collocazione, nel sempre più ristretto “mercato dell’arte”. Come riassumeresti il rapporto tra etica ed estetica, nel tuo percorso?

Non so se il mio percorso abbia un’etica. Certamente la questione estetica mi preme molto e sono alla ricerca di una forma mentre il lavoro prende vita. Una forma spaziale principalmente. Se qualcosa è stato prodotto di buono dal mio lavoro in ambito estetico, credo proprio che lì debba collocarsi anche il principio etico che si pone alla base. Da nessun’ altra parte. E credo avvenga in maniera automatica. E comunque non c’è alcun dubbio per me sul fatto che lo spettacolo ha un luogo preciso in cui prende forma e si dispiega, in termini sia etici che estetici. E questo luogo è il corpo di ogni singolo spettatore. Se non accade lì, non accade certamente da nessuna altra parte. Sulla scia della tua domanda, mi fai venire in mente una frase di Gerhard Richter, pittore che amo particolarmente: ‘Non perseguo alcun obiettivo, sistema o tendenza. Non ho programmi, stile o direzione. Non mi interessano le questioni specializzate, i problemi tecnici o le variazioni per raggiungere la perfezione. Rifiuto le definizioni. Non so quello che voglio. Sono inconcludente, inaffidabile, passivo. Mi piace l’indefinito, lo sconfinato, l’incertezza perenne. Ora che non ci sono più preti e filosofi, gli artisti sono diventati le persone più importanti del mondo. Questa è l’unica cosa che mi interessa’.

Negli anni sembra che tu abbia percorso una linea poetica e politica che dal teatro muove sempre più spesso e strutturalmente verso il fuori del teatro.

Non ci sono direzioni precise. Credo nella straordinaria potenza dello spazio scenico, della forma mimetica, come aspetti fondativi dell’umanità. Arriverei proprio a dire ‘Ciò che ci rende umani’. Non mi preoccupa il fatto che questo spazio – così importante per l’indagine che l’umanità compie su sé stessa – venga sempre più confuso e svilito dall’intrattenimento e dalla volontà di esibizione. Questo è sempre stato. Paradossalmente lo spazio scenico è uno spazio che può rimanere maggiormente protetto rispetto ad altri perché la sua possibilità di generare plus valore economico è limitata e dunque ritenuta poco interessante, in un mondo definitivamente schiacciato dalle leggi del consumo. La marginalità del teatro è un aspetto che dovrebbe rafforzare il nostro lavoro, non svilirlo. E ovviamente non parlo del diletto delle minoranze colte e sensibili. Assolutamente no. Parlo di preparare un fuoco, e questo non può essere fatto per molte persone. Altrimenti diventa fuoco… d’artificio. Per me è fantastico cercare di riportare allo spazio scenico tensioni che nascono fuori da esso. In pratica fino ad ora se c’è una cosa che fatico a frequentare è ciò che viene scritto per il teatro. Mi interessa riportare alla dimensione scenica tutto il resto, da un trattato di medicina a un incontro di boxe. Da una graphic novel di Larcenet a un libro inchiesta su Chernobyl. In questo momento però mi interessa Genova. Proprio la Città di Genova. E sviluppare un lavoro che si interroga su che cosa intendiamo quando parliamo di spazio pubblico. Oltre a proseguire al meglio l’esperienza di Semmelweis con Marco.

 

Festival Ipercorpo

 

Parallelamente nelle più recenti edizioni il Festival Ipercorpo da te diretto si è via via con maggiore nitidezza progettuale rivolto alle comunità di non addetti ai lavori. Come immagini il futuro di questo progetto?

È bene dire che io dirigo il Festival sul piano generale ma la sua forma è frutto del lavoro ideativo di persone che sviluppano linee curatoriali precise: Mara Serina, Davide Ferri, Davide Fabbri, Elisa Gandini, Valentina Bravetti. Il tutto impalcato da Elisa Nicosanti e, da due anni, da Neera Pieri. Sembra un doveroso ringraziamento alle persone con cui lavoro, in realtà quattro sezioni di ugual dignità espressiva ed economica che compongono Ipercorpo – Teatro, Danza, Musica, Arte – non mi paiono un fatto così scontato nella programmazione di spettacolo dal vivo in Italia.  È peraltro importante dire che anche l’arte contemporanea per noi è trattata dal vivo, chi frequenta il festival lo ha sperimentato.  Forse dalla crescita di questo intreccio si è creata un’apertura molto interessante che guarda a diversi tipi di pubblico, che a volte cambia radicalmente anche da serata a serata. Quando succede per me è fantastico. Il futuro di Ipercorpo dovrà sempre partire dal contemplarne la reale possibilità di sparizione. Solo con questa premessa, solo con questa messa a repentaglio si potranno continuare a intercettare forze vive e propulsive capaci di portare il festival nel futuro, con un senso per chi lo frequenta e per chi lo realizza. In altro modo moriremo. E magari non ce ne saremo nemmeno accorti. Ad ora siamo vivi, sono le tue parole stesse a testimoniarlo!

Grazie.

Grazie a te.

 

MICHELE PASCARELLA

 

info: https://www.cittadiebla.com/ https://www.ipercorpo.it/