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Da Palermo a New York, passando da Cuba: il grande fotografo a Grenze Arsenali Fotografici presenterà una mostra e guiderà un workshop. Lo abbiamo intervistato.
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Che cosa non è possibile fotografare?
Dal punto di vista etico ci sono situazioni che, anche se possono essere interessanti, è meglio non fotografare, in particolare quando ci si imbatte in momenti difficili o dolorosi della vita di altri. Mi è spesso capitato, però, di ritrarre persone morte da poco o cortei funebri. In questi casi è accaduto, quasi per volontà divina, che un familiare della persona defunta mi abbia dato spontaneamente e improvvisamente il permesso di fotografarla. Mi sono trovato in queste situazioni in Messico e in Perù, ad esempio.
Tra documentazione del reale e costruzione di un immaginario dove si colloca, il tuo lavoro fotografico attuale?
Fotografando si possono catturare emozioni, sentimenti, momenti poetici del nostro vivere. In questo momento sicuramente, tra queste polarità, il mio lavoro ha a che fare con la costruzione di immaginario. Mi considero un poeta-fotografo. Cerco, attraverso le immagini, di esprimere la quintessenza del vivere, come se componessi haiku.
La tua poetica è centrata sulla nozione di occhio interno.
È una cosa che si sviluppa con gli anni e l’allenamento: ci si abitua a collegare emozioni, sentimenti ed esperienze allo scatto, che è sempre intuitivo, mai solamente razionale. Faccio un esempio. Una volta, durante un viaggio in Brasile, stavo camminando al tramonto in una zona a me ignota. Mi imbattei in un pescatore ubriaco, a torso nudo. Mentre aspettavo che qualcosa succedesse d’improvviso si poggiò sulla spalla una pesante catena nera: un’azione che durò pochi secondi. Mi era stata data l’improbabile possibilità di fotografare l’arrivo di cinque milioni di schiavi a Bahia. Più passa il tempo e più la mia fotografia diventa spirituale, viene dal cielo.
Tu lavori in analogico, quasi mai in digitale. Perché?
Per mantenere lo stesso aspetto e la grana delle immagini: è un modo che uso da anni e mi rende riconoscibile. Lavorare in analogico è una pratica quasi zen: lentamente e concretamente le immagini vengono alla luce. Questa lentezza mi aiuta a stare con i piedi per terra.
Hai lavorato con Magnum Photos, una delle più importanti agenzie fotografiche del mondo.
Ho collaborato per due anni con loro. Mi è servito per capire che la mia strada è l’assoluta indipendenza.
A Grenze Arsenali Fotografici sarà allestita una mostra di alcune tue immagini realizzate a Cuba, dove hai vissuto a lungo.
In generale, non solo per Cuba, se possibile è bene evitare di stare poco tempo nei luoghi. Io vi ho vissuto per quattordici anni. Poter entrare e uscire da Cuba con una certa facilità mi ha permesso di reperire materiali fotografici indispensabili al mio lavoro. Ho avuto la fortuna di incontrare la persona che poi ho sposato e da cui ho avuto due figli, ciò mi ha permesso di raccontare una Cuba anche molto personale e intima. Ero lì come corrispondente esteri della Gazzetta dello Sport: potevo avere auto, telefono e rapporti col mondo (a differenza dei cubani). Sapevo bene che la mia corrispondenza veniva letta, ma il regime mi ha permesso di fotografare l’esercito cubano, il lavoro negli zuccherifici, lo sport. Davo workshop, a un certo punto mi fu chiesto di smettere di farlo: mi accusavano che fossero workshop giornalistici, mentre io lavoravo sulla vita quotidiana. Così decisi di andare altrove.
Al Festival guiderai un workshop che si focalizzerà sul tema della selezione delle immagini. Quali principi regolano l’individuazione di una bella fotografia? E di una efficace (se vi è differenza)?
L’incontro con le immagini è un’esperienza molto personale, se in un libro piacciono venti immagini è un grande libro. Una fotografia, per convincermi, deve avere contenuto e forma nelle stesse quantità. Se mancano uno o entrambi questi elementi l’immagine non funziona. Chiaramente vi è una grande dose di soggettività, in questo tipo di scelte.
Hai vinto alcuni dei più prestigiosi premi fotografici nel mondo, tra cui il World Press Photo award, il W. Eugene Smith Grant e borse di studio della Alicia Patterson Foundation e della John Simon Guggenheim Memorial Foundation. Quali aspetti del tuo lavoro sono maggiormente apprezzati, nel mondo della fotografia
L’occhio interno mi ha aiutato a definire uno stile personale, credo piuttosto riconoscibile. Nonostante il popoloso mondo della fotografia di reportage o documentaristica, in quarantadue anni di lavoro penso di essere riuscito a creare un mio sguardo sul mondo.
MICHELE PASCARELLA
info: https://bazanphotos.com/?lang=it, https://www.grenzearsenalifotografici.com/